Alexander Shubin – Il potere deve tornare al popolo
Pubblicato per la prima volta in lingua russa in “Posle” https://posle.media/vlast-dolzhna-vernutsya-k-lyudyam/
Cosa attende la Russia dopo la fine della guerra? Come possiamo superare insieme le conseguenze della catastrofe di febbraio? Quali soluzioni politiche ed economiche si possono offrire? Lo storico Alexander Shubin riflette sul passato e sul futuro della società russa
Vede delle analogie storiche che ci aiutano a capire il nostro difficile presente e a immaginare il nostro futuro oggi?
Le analogie non dimostrano mai nulla, ma l’esperienza storica è molto importante per noi. Credo che dovremmo imparare dalla storia di un secolo fa, quando la noiosa prima guerra mondiale portò alla fine a una destabilizzazione diffusa, persino alla guerra civile, alla distruzione dell’economia che poi dovette essere ricostruita con grande difficoltà. La Russia si trovò di fronte al compito di modernizzarsi e ciò fu portato a termine con grandi sacrifici. Ora ci sono anche dei compiti molto seri di transizione post-industriale, se vogliamo andare avanti e non andare incontro al degrado. Prima cominceremo a passare dagli obiettivi artificiali di grande potenza alla soluzione dei problemi interni al Paese, maggiori saranno le possibilità di evitare la catastrofe.
Quali sono i possibili scenari per la fine del conflitto e le opzioni per il futuro postbellico della Russia?
Nei primi giorni successivi al 24 febbraio, ho già scritto come sarebbe andata a finire: gli obiettivi fissati per l’operazione non sono realistici, non ci sarà alcuna vittoria e le conseguenze per la Russia potrebbero non essere migliori di quelle per l’Ucraina. Finora le cose stanno andando in questa direzione. Sono state emanate ulteriori leggi repressive che rendono difficile discutere la questione. Ma gli eventi hanno parlato da soli, quindi è già opportuno parlare di cosa fare nella prossima fase storica. Ahimè, si dovrà partire da una “partenza bassa”, con una demoralizzazione di massa e un enorme buco nel bilancio statale. Dovrà essere affrontato anche il difficile compito di ripristinare le buone relazioni con i paesi vicini, che all’inizio del XXI secolo non potevano immaginare una tale distruzione e carneficina di massa fossero possibili nella regione. Ma gli uomini di Stato, per preservare il loro potere e le loro proprietà, possono arrivare a mettere le persone l’una contro l’altra. Non sarà facile ripristinare le relazioni con i vicini europei, ma è troppo presto per parlare di un possibile compromesso. Sebbene i perimetri siano in linea di massima chiari, non saranno presi sul serio dalle parti in questo momento. Oggi è più importante pensare a come ripristinare la vita normale nel Paese, in cui tornerà della gente, mentalmente distrutta dalla guerra, dove aumenteranno la povertà urbana e lo squallore in vaste aree già consegnateci dalla storia e che noi, inseguendo il miraggio della grandezza imperiale, non riusciamo a dominare, a sistemare. Ciò che può salvare la Russia dalla reciproco odio tra le persone che si trovano nello stessp cortile, è il compito comune di riorganizzare la nostra vita su nuove basi. Non sulla vecchia strada del capitalismo periferico, che si è esaurito e che nelle condizioni attuali può solo trascinarci in un vortice catastrofico ma con l’applicazione di tecnologie post-industriali e la creazione di relazioni sociali adeguate ad esse che forniranno una via d’uscita relativamente poco costosa dalla situazione in cui si trova il Paese. Dobbiamo semplicemente rivolgerci verso l’interno, che ha dentro di sé tutto ciò cje abbisogna per una vita felice.
La situazione geopolitica all’interno della quale continua a svolgersi la catastrofe di febbraio può essere vista come un processo di cambiamento della struttura del potere politico mondiale e di spostamento dell’egemonia internazionale dagli Stati Uniti alla Cina?
Le costruzioni geopolitiche incentrate su singoli Stati che si strappano l’un l’altro il testimone dell’egemonia non funzionano bene nel nostro secolo: le economie di questi Stati sono troppo intrecciate. Ciò che vediamo oggi in Russia, Cina e Medio Oriente sono episodi della grande crisi iniziata nel 2008. Questa situazione ricorda la “grande depressione” degli anni ’30 del
Novecento e le sue conseguenze. Poi il crollo della “prosperità” capitalistica degli anni ’20 ha portato alla fine a una guerra mondiale. Abbiamo già visto le Primavera arabe, che non hanno portato a un cambiamento sociale qualitativo e che quindi si potrebbero ripresentare. Abbiamo anche visto come un’interruzione della vita sociale legata a una pandemia abbia scosso il sistema occidentale. Anche i conflitti militari nello spazio post-sovietico e il desiderio della Cina di cambiare la sua posizione periferica nell’economia attraverso la coesione sociale e una dura politica estera possono essere visti in questo senso. Ma l’egemonia richiede qualcosa di più del volume del PIL: richiede una transizione verso relazioni sociali più avanzate e adeguate alla transizione post-industriale, una strategia che possa essere percepita a livello globale come progressiva e attraente.
Nel 2008 non esisteva un unico Paese egemone su scala mondiale ed era emerso un sistema globalista che tendeva all’extraterritorialità. Élite opposte potevano trovarsi in strade vicine a New York e Seul, ad esempio, collaborando e scontrandosi in giochi globali. Si trattava di un sistema di capitalismo globale che è stato indebolito e parzialmente minato dalla crisi del 2008. Ma questa battuta d’arresto si risolverà in un raggruppamento delle strategie globali e dei loro vettori, ma non faranno della Cina il leader mondiale. Per questo, la Cina non ha un progetto che possa entusiasmare gli Stati Uniti e l’Unione Europea. L’idea che possa esistere uno o tre-quattro Stati egemoni è arretrata, adeguata all’inizio del XX secolo. Oggi viviamo in un’epoca diversa, in cui i politici ucraini possono influenzare quelli tedeschi, i politici russi possono influenzare quelli americani, i politici cinesi possono influenzare quelli russi e così via. Gli attuali leader statunitensi, pur sostenendo i valori della legge e dell’ordine globale, da tempo non cercano di far governare il loro Stato direttamente su tutte le élite mondiali. Per loro è piuttosto importante che le altre élite la pensino come loro, il che viene percepito come una garanzia di prevedibilità, sicurezza e successo negli affari. Le élite cinesi non sembrano essere d’accordo su questo approccio, il che provoca sfiducia e disagio reciproci. In precedenza dato che il processo di modernizzazione della Cina era ancora completo, c’era la volontà di imparare e adattarsi, ma ora la modernizzazione è stata completa e il Paese rivendica di essere il secondo centro di un mondo bipolare. Ma la strada per il declino del ruolo degli Stati Uniti è ancora lunga. Se l’attuale crisi porterà a sconvolgimenti rivoluzionari negli Stati Uniti e in tutto l’Occidente, ci sarà un’ondata che avrà un effetto devastante anche sulla Cina. A mio avviso, nel XXI secolo, le discussioni su chi governa un Paese o una parte di esso sono arcaiche. A livello tecnologico e culturale moderni, non ha più importanza. La consapevolezza delle nuove possibilità di interazione umana extraterritoriale aiuterà a superare i conflitti territoriali e il dominio del nazionalismo in quei Paesi che vogliono andare oltre il pensiero plasmato dalla guerra fredda.
I conflitti territoriali interetnici, come possiamo vedere, non portano da nessuna parte. Questo significa che il progetto di globalizzazione è giunto a un punto morto? E quale progetto politico può sostituirlo?
I conflitti interetnici sono un prodotto della costruzione della nazione nel XIX e XX secolo, legata alla formazione della società industriale. Anche la globalizzazione alla fine del XX secolo si è sviluppata nel quadro del dominio della società industriale. Pertanto, si potrebbe non superare i conflitti inter-nazionali e si potrebbe addirittura giungere a esacerbarli, tracciando i confini a piacimento delle élite. La crisi della globalizzazione a cui abbiamo assistito dal 2008 ha creato molti presupposti per questo, perché è stata accompagnata da un raggruppamento di queste élite essenzialmente industrializzate. Ma se il mondo inizia a riorganizzarsi su base post-industriale, il terreno per i conflitti territoriali interetnici scomparirà. È più probabile che comunichiate con qualcuno che vive a centinaia o migliaia di chilometri di distanza piuttosto che con il vostro vicino di casa. Se per una società industriale è fondamentalmente importante la lingua parlata dagli abitanti di un certo territorio, in futuro le persone potranno vivere con vicini che dicono quello che vogliono. Se non vi piacciono i vostri vicini, potreste non comunicare con loro, perché l’occupazione sarà principalmente distante e potrete scegliere la cerchia di comunicazione che preferite in tutto il mondo e non solo tra i vostri connazionali. Se la socializzazione delle persone si sposta verso sottoculture basate sugli interessi, l’unità nazionale non avrà più senso. Naturalmente la strada da percorrere è ancora lunga.
E che tipo di sottoculture sono? Come li immagina?
Le persone saranno unite da ciò che è più importante per loro. Per alcuni è una professione, per altri un hobby: queste sottoculture saranno una via di mezzo tra un sindacato, una cooperativa e un club per lo scambio di esperienze. Per alcuni sarà un tentativo ideologico di cambiare il mondo, per altri una pratica spirituale. Sono possibili anche altre opzioni.
La Russia è uno Stato multietnico. Che tipo di politica dovrebbe avere nei confronti delle diverse comunità etniche, in modo che non ci siano conflitti e che non vengano violati gli interessi di nessuno?
Viviamo in un Paese che riconosce la propria pluralità etnica. Formalmente c’è un atteggiamento rispettoso nei confronti delle minoranze nazionali, soprattutto perché sono piuttosto numerose. Ma allo stesso tempo lo Stato sta cercando di riunire il “mondo russo”. Perché non il mondo turco? E perché, quando si parla della storia del nostro Paese, i politici percepiscono il “giogo tataro-mongolo” come qualcosa di ostile? Dopo tutto, la Russia è l’erede non solo (e nemmeno tanto) della storia della Russia, ma della storia dell’Orda d’Oro.
Bisogna infine capire che la Russia non è sinonimo dello Stato-nazione russo e che il nazionalismo in tutte le sue possibili forme (compreso il desiderio di governare il “mondo russo”) è distruttivo per la Russia. Dobbiamo smettere di definire in modo arrogante i diversi gruppi etnici come “minoranze” e costruire privilegi etnici a seconda della regione. Un cittadino del Paese deve avere pieni diritti ovunque e le tradizioni devono essere rispettate non solo nei territori assegnati a determinati gruppi etnici, ma ovunque, da Murmansk a Vladivostok. Allo stesso tempo solo le tradizioni compatibili con i valori costituzionali, che dovrebbero garantire il diritto di un cittadino a vivere secondo le tradizioni che ha scelto e il diritto degli altri a non soffrire di questo se le tradizioni sono arcaicamente associate alla violenza, devono essere rispettate. L’imposizione forzata di tradizioni a chiunque nella società moderna è inaccettabile.
Di quale programma economico pensa che la società russa abbia bisogno per uscire dalla crisi del prossimo dopoguerra? E cosa si può fare ora?
Prima di tutto, dobbiamo capire una cosa: i progetti che richiedono una spesa di bilancio consistente non funzionano. Per quanto si voglia finanziare il settore sociale, il budget sarà molto limitato con qualsiasi esito del conflitto in corso. In queste difficili condizioni, sarà necessaria una svolta sociale: ridistribuzione dei redditi all’interno delle imprese a favore dei lavoratori, garanzia dei diritti sociali rispetto agli interessi dei proprietari e dei manager. Se tutti devono stringere la cinghia, i capitalisti dovranno farlo per primi. In una crisi sempre più grave, questa sarebbe la cosa giusta da fare, ma non è sufficiente.
La vita nelle città congestionate peggiorerà in ogni caso, mentre in alcune piccole città e villaggi è così poco sviluppata e finanziariamente squallida che la gente sta già fuggendo verso le grandi città, in primo luogo verso Mosca. Ma Mosca sarà anche privata dei suoi flussi finanziari vitali, finora legati soprattutto al commercio globale di materie prime. Ciò significa che dovremo ricostruire la nostra vita sulla base di spese finanziarie modeste. E questo è anche un vantaggio: esiste uno spazio geografico enorme dove potersi sistemare con il massimo comfort, in case intelligenti con impianti energetici propri (il che non esclude l’allacciamento alla rete energetica generale, ma farà risparmiare denaro), usare stampanti in 3D, che forniscono oggetti e tecnologie a basso costo; sistemi idroponici per coltivare piante senza molto lavoro. Questo ci permetterà di raggiungere una parziale autosufficienza, che avrà immediatamente un grande impatto sul nostro bilancio senza sacrificare la qualità della vita. Si dirà che queste tecnologie sono costose. Ma una volta i personal computer, le stampanti e i telefoni cellulari erano alla portata di pochi: ora sono accessibili alle masse. Se c’è un ordine sociale per la tecnologia, questa entra in produzione e diventa più economica. E l’ordine sociale può essere formato non solo da incentivi diretti da parte dello Stato, ma anche dalla creazione di relazioni sociali che rendano conveniente vivere in un modo che richiede esattamente tali tecnologie.
Oggi le risorse del Paese sono concentrate nelle mani delle élite al potere, principalmente a Mosca e in poche altre città; la gente gravita intorno queste risorse alla ricerca di un sostentamento. Se le risorse rimangono locali, la gente vivrà più o meno uniformemente in tutta la Russia (forse, ad eccezione di zone con un clima rigido).
La deconcentrazione del potere è necessaria per evitare che le risorse vengano spazzate via da un gigantesco aspirapolvere verso il centro. La Russia dovrebbe trasformarsi da un impero de facto a una vera federazione (che, tra l’altro, è in linea con i principi costituzionali russi) con regioni autonome con pari diritti e con un forte autogoverno a sostegno dell’autonomia regionale. Il potere dovrebbe tornare al popolo; i principali poteri dovrebbero essere sul territorio e assegnati verso l’alto nella misura in cui il popolo lo ritiene necessario.
I poteri delle autorità centrali dovrebbero concentrarsi su aree strettamente limitate di importanza comune: controllo dei diritti civili, degli standard sociali e ambientali; politica estera e sicurezza antiterrorismo all’interno dei propri confini; lotta alle attività criminali. Per tutto il resto le persone possono decidere sul campo come meglio credono. Formulo sinteticamente questo programma così: svolta sociale, autogoverno, regolamentazione economica, ri-modernizzazione post-industriale.
Lei parla molto di società post-industriale, non nel modo in cui è descritta nei libri di testo. Come la intende e quali sono le modalità di transizione che vede?
Nei libri di testo non c’è un unico punto di vista su questo tema. Ve lo dico come autore di libri di testo. È una domanda ampia, quindi risponderò in astratto, molto brevemente. Maggiori dettagli si possono trovare nel “Manifesto dell’Informale”. Esiste un’idea popolare secondo cui i moderni Paesi occidentali vivono già in una società post-industriale, ma non possiamo essere d’accordo con questa idea nemmeno dal punto di vista logico: per essere considerata tale, la società post-industriale deve essere fondamentalmente diversa sia dalla tradizionale società agraria sia dalla moderna società urbana industriale nei parametri di base, altrimenti non è “post-“. La società industriale si basa sulla gerarchia, sulla verticalità manageriale, sulla stretta specializzazione che viene utilizzata come strumento di una macchina organizzativa e produttiva. La società moderna è ancora largamente organizzata secondo il principio: “Tu sei il capo, io sono lo stupido”. Di conseguenza, la società post-industriale dovrebbe essere fondamentalmente diversa: non gerarchica ma autogestita, organizzata orizzontalmente piuttosto che verticalmente. Le attività delle persone diventeranno non più esecutive, ma soprattutto creative. La divisione sociale in classe dirigente e classe operaia sarà superata. Lo strato sociale di base del futuro, che io chiamo classe informale, combinerà funzioni creative e organizzative con l’attuazione: tu decidi, tu fai. Tecnologicamente, ciò sarà associato all’automazione e alla parziale autosufficienza, con la predominanza dell’attività umana creativa rispetto al “lavoro” che implementa soluzioni altrui.
La società post-industriale è anche postcapitalista, cioè è essenzialmente socialista nel senso originario e pre-staliniano del termine. Molti dei movimenti e delle società che hanno issato la bandiera rossa non erano affatto organizzati in chiave socialista erano gerarchici e autoritari. Il vero socialismo è una società di uguaglianza sociale, di autogoverno, di auto-organizzazione, di creatività, cioè qualocsa di essenzialmente post-industriale.
Oggi, grazie alle tecnologie informatiche e collegate, a un nuovo livello di comunicazione, possiamo iniziare la transizione verso la società sognata da umanisti, socialisti e futurologi del passato. Ma questo richiede anche una rivoluzione della coscienza, una rivoluzione della cultura. Richiede la fine dei vecchi feticci dell’arricchimento e del potere statale, la corsa al successo economico e alla magnitudo.
Anche nelle fasi iniziali del passaggio a nuova relazioni, molti dei problemi che fanno soffrire nella modernità saranno un ricordo del passato. Una vita confortevole è possibile quasi ovunque, non solo nelle grandi città. Il disaccoppiamento demografico delle città migliorerà la vita anche in questo senso: scompariranno gli ingorghi, la folla anonima e i folli grattacieli. L’habitat ecologico degli esseri umani migliorerà. E, di conseguenza, anche la sua salute. Molte persone potranno lavorare a distanza, una parte significativa delle persone potrà lasciare le fabbriche, dove non sono realmente necessarie, perché l’automazione della produzione si sta sviluppando attivamente. Di conseguenza, queste persone potranno dedicarsi ad attività creative, di invenzione e non lavorare nei laboratori. Ma anche nelle officine l’autogestione migliorerà la produzione e le condizioni di lavoro. In gioventù ho lavorato in una fabbrica. C’erano lavoratori che esprimevano idee interessanti per migliorare l’organizzazione della produzione, ma i padroni non volevano attuarle. I capi avevano paura del cambiamento e avevano un atteggiamento snobistico nei confronti della “base”.
Occorre una società in cui prevalgano la creatività e l’uguaglianza. La strada per raggiungere questo obiettivo è lunga, ma inizia con i primi passi. Naturalmente, le attuali élite al potere lo impediranno: sarebbe la morte sociale per loro. Ma le terribili conseguenze delle attuali “operazioni” possono minare in modo significativo la forza delle élite al potere nel nostro Paese e, di fronte al crollo dei vecchi metodi, provocare una spaccatura e risvegliare la volontà di una parte del “vertice” e della “base” della società di vivere in modo nuovo. Sarà quindi possibile passare alla costruzione di una società post-industriale: ci sono già molte componenti che devono essere messe in comune a tale scopo. È importante che si riunisca una massa critica di attivisti organizzati ispirati da questa idea. Se questo fattore soggettivo non si presenterà, la Russia continuerà a degradare e a trasformarsi in un’area di decadenza sociale o in uno Stato arcaico e con la baionetta in mano. Il mondo in generale si trova ora di fronte a un bivio grandioso, come alla fine del Medioevo prima dell’inizio della modernizzazione industriale. In Europa avrebbe potuto iniziare nel XIV secolo, ma non si osò rompere con il vecchio modo di pensare, con il vecchio modo di vivere, e solo nel XVI secolo, con l’inizio della Riforma, la transizione divenne irreversibile. Nel nostro secolo, spetta alla nuova generazione stabilire se sarà condannata a subire una crisi secolare o se riuscirà a fare un passo verso un futuro di pace.
Alexander Shubin è dottore in Storia, autore di oltre 20 monografie e più di 200 articoli scientifici. Dalla seconda metà degli anni Ottanta è stato coinvolto nei movimenti socialisti, ambientalisti e civili antiautoritari. Dalla fine degli anni ’80 si occupa di teoria della società post-industriale.