Dall’Urss alla Russia: la trasformazione degli spazi abitativi a Mosca






di Yurii Colombo

“A Syry, insieme al numero di uffici ristrutturati aumentò anche la quantità di automobili. La fabbrica Manometr era ferma già da un po’ d’altronde non aveva senso produrre manometri, chi li avrebbe utilizzati? Dando in affitto ai vari uffici i locali dove prima c’erano le officine, la fabbrica incassava sicuramente più soldi di quelli che avrebbe ottenuto producendo manometri dall’alba al tramonto. Il rovescio della medaglia fu che a Syry non si trovavano più spazi liberi nelle strade: automobili di tutte le marche del mondo erano parcheggiate in strada, una contro il paraurti dell’altra”.

Così è condensato il processo di gentrificazione di un vecchio quartiere operaio di Mosca nei primi anni 2000, in Zona Industriale, il romanzo di Eduard Limonov appena pubblicato in italiano. Uno dei principali aspetti del processi di trasformazione capitalista del tessuto urbano già conosciuto negli anni ’80 dello scorso secolo nelle metropoli occidentali, ma non l’unico e non il più peculiare della realtà moscovita.

Mosca era stata in gran parte distrutta durante la seconda guerra mondiale e molte famiglie erano state costrette alla coabitazione (komunal’ny) se non addirittura a vivere in baracche. Per rispondere alla crisi abitativa intervenne un grande piano dello Stato alla metà degli anni ’50 con la costruzione di caseggiati a basso costo, prefabbricati a pannelli, le cosiddette kruščevke dal nome dell’allora leader sovietico Nikita Kruščev. Le kruščevke erano edifici del modello  “k-7” a 5 piani senza ascensore, composti da 64 appartamenti di 1 o 2 piccoli locali con cucina e bagno.

I processi di urbanizzazione nel secondo dopoguerra in Urss erano regolati dallo Stato che puntava a sviluppare il Paese in modo uniforme. Tuttavia la crescita demografica e l’attrazione verso la metropoli soprattutto dei ceti sociali a più alta qualificazione fece passare Mosca da città di 4 milioni di abitanti alla fine della guerra a megalopoli di 8 milioni di residenti degli ultimi anni della perestrojka. L’idea di sostituire via via le kruščevke con case più confortevoli venne messa forzatamente da parte. per sviluppare nei decenni successivi quartieri periferici, detti anche quartieri dormitorio (spal’ny rayonj) con modelli di edifici più accurati e ampi più confortevoli da 9 a 17 piani.

Nel giro di un decennio (1955-1964) l’emergenza abitativa venne in parte risolta: 54 milioni di persone si trasferirono a vivere in propri appartamenti accordati dallo Stato. Fino al 1975 lo Stato sovietico fu in grado di costruire appartamenti per 1,3 miliardi di metri quadrati.

L’unità di base dell’intera pianificazione urbana sovietica era il microdistretto (quartiere) formato da una serie di kruščevke accompagnato da supermercati, scuole primarie, giardinetti, cinema e/o club. Il primo progetto pilota a Mosca fu quello di Čeryomuški costruito in 22 mesi tra il fatidico 1956 e il 1958. Alle kruščevke si alternano ogni tanto torri a 9 piani e spazi pubblici relativamente chiusi con spazi verdi, panchine e fontane. Oltre agli edifici residenziali a Čeryomuški furono previsti asili e scuole, il cinema “Ulan-Bator” e un, certamente inutile vista la quantità di cui era disseminata la città,  monumento a Lenin. Owen Hatherley ha fatto notare come “Čeryomuški non fu pensato come “quartiere dormitorio” ma come un vero e proprio un hub del complesso scientifico-militare-industriale dell’URSS di cui il cuore era l’Istituto di Informazione Scientifica della Biblioteca delle Scienze Sociali, l’equivalente sovietico della Biblioteca del Congresso, raggiungibile dalla strada per mezzo di un ponte di cemento che attraversa un lago artificiale”.

I caratteri peculiari dell’ampiezza degli spazi sociali sono stati esaltati dalla ricerca dell’architetto polacco Kuba Snopek che nel 2010 ha proposto che, un altro dei primi microdistretti di Mosca, Belaevo venga incluso nella lista dei siti del patrimonio culturale protetti dall’UNESCO, in quanto esempio di quel concettualismo moscovita romantico sintetizzato da Boris Groys.

Ancora più particolare è il microdistretto di Severnoye Čertanovo, costruito tra il 1972 e il 1975, una sorta di utopia architettonica socialista in piena era brezneviana, “un estremo tentativo di mostrare che il “socialismo sviluppato” poteva avere spazio per diversi tipi di famiglie e di vite. Dopo aver fatto uscire la popolazione da appartamenti comuni sovraffollati, l’economia pianificata poteva finalmente passare dalla “quantità” alla “qualità”” ha sottolineato Hatherley.

Severnoye Čertanovo è composto da blocchi di appartamenti che si sviluppano attorno a un grande lago. I palazzi sono costruiti anch’essi sulla base di pannelli standardizzati, ma disposti in modo tale da dare varietà agli edifici; per questo Severnoye Čertanovo è il primo dei microdistretti in cui si può davvero parlare di “architettura” piuttosto che di ingegneria”. Nelle alte torri sono ospitati appartamenti di metratura più ampia rispetto alle kruščevke che raggiungono i 3 vani per 80 quadrati calpestabili.

I critici del “sistema delle kruščevke” coglievano solo l’aspetto dell’uniformità, la percezione di alienazione e di solitudine di fronte alla teorie di palazzi anonimi: una critica sicuramente fondata di un piano immobiliare con idee  sulle esigenze e i gusti dei nuclei familiari completamente precostituite.

La kruščevke sovietiche

Tuttavia con il crollo dell’Urss si impose nel campo immobiliare una ideologia mercantilista tanto superficiale quanto rozza mentre l’edilizia sociale diventava un accessorio della privatizzazione del suolo della capitale. Si presume spesso che la standardizzazione sia stata interrotta dalla “terapia d’urto” capitalista dei primi anni ’90. Tuttavia nuovi blocs costruiti negli interstizi e oltre i microdistretti sovietici non sono tanto poi diversi dalle kruščevke, assemblati, come quelle, per mezzo di pannelli di cemento.

L’ipotesi liberista era che il mercato avrebbe prodotto varietà, vivacità e complessità agli edifici. Ma così non è stato: i nuovi edifici sono diventati più grandi, più lunghi e più incuranti dello spazio pubblico di quelli sovietici senza contenere al loro interno una dimensione spaziale accogliente e una dimensione culturale come le biblioteche o i teatri.

Quello che è successo in realtà dagli anni ’90 in poi è stato un boom immobiliare disordinato in cui ai vecchi vizi se ne sono aggiunti di nuovi. Nella lunga era dell’amministrazione di Jurij Lužkov, e in particolare dagli anni 2000, è indubbio che i processi di privatizzazione del suolo e degli appartamenti sovietici assieme al riciclaggio del denaro sporco, rese il mercato immobiliare assai dinamico, ma inevitabilmente tutto ciò fece anche decollare i prezzi.Lo sviluppo verticale, plasticamente espresso dalle nuove skyline della capitale, si è intrecciato con il costantemente allargamento della città determinata dall’afflusso a Mosca di cittadini dell’immensa provincia russa e la conseguente formazione nuovi sobborghi sempre più lontani dal centro storico. Si tratta dei novij rajony (nuovi quartieri) complessi residenziali a 23-35 piani, dotati di parabola satellitare e balconi relativamente ampi ma spesso costruiti con materiali di non altissima qualità. Quartieri, che pur andando incontro alle necessità abitative di una città in costante espansione (12,5 milioni di abitanti a cui vanno aggiunti altri 12,5 della provincia) sono stati pensati e realizzati con pochissimi servizi e infrastrutture e il cui perno è rappresentato dal centro commerciale multifunzionale. Limiti a cui sta cercando di porre rimedio la nuova amministrazione Sergej Sobjanin, diventato sindaco di Mosca nel 2010, soprattutto con la costruzione di nuove fermate della metropolitana.

Tali dinamiche si intrecciano ora con il progetto “Renovazij” (Rinnovamento) sostenuto sua dal governo russo che dalla amministrazione comunale che prevede l’abbattimento di 7900 kruščevke e il reinsediamento di 1,6 milioni di abitanti in nuove abitazioni del 20% più grandi nella stessa area. Un progetto già partito nel 2017 ma che sconta la cronica mancanza di capitali per realizzarlo (2 miliardi di dollari) e che ha incontrato parecchie resistenze da parte degli abitanti delle kruščevke. “Si tratta di un piano di sviluppo che, insieme alla modernizzazione architettonica, è destinato a trasformare in maniera piuttosto radicale la struttura socio-urbana della capitale, con un impatto potenzialmente problematico sugli spazi pubblici e di aggregazione, e sulla vita sociale e ricreativa soprattutto delle fasce più povere della popolazione’’ ci dice Guido Sechi ricercatore in Geografia Umana e Pianificazione Urbana dell’Università della Lettonia, che sta lavorando assieme al fotografo Michele Cera a un grande progetto culturale proprio sulle continuità e trasformazioni degli spazi pubblici dell’ex Urss dentro la nuova governance capitalista.

Evgeny Rudakov, pensionato di 70 anni, ha sempre vissuto nelle krushevke e ora non vuole traslocare forse più per abitudinarietà che per opposizione contro la speculazione immobiliare che aleggia sull’intero progetto. “L’edificio è buono, le pareti sono spesse” afferma a difesa delle kruščevke, anche se la loro obsolescenza è evidente. Una parte dei residenti invece si oppone al trasferimento proponendo una riallocazione che permetta in mantenere intatta la dimensione sociale della Mosca del secondo dopoguerra. A tal fine hanno organizzato, a partire dalla primavera del 2017, un ampio movimento “anti-renovacij” che si è andato a intersecare con l’opposizione anti-regime mettendo in discussione la logica di un ridisegnamento del tessuto urbano che ha come alfa e omega solo la logica del profitto e la massimizzazione della rendita fondiaria.

Anche per questo il recupero di intuizioni e della dimensione utopica di parte del piano regolatore sovietico potrebbe diventare utile nella battaglia per la democratizzazione e l’agibilità degli spazi urbani.

Apparso originariamente su “Left” nel 2018

 

 

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