di Yurii Colombo apparso su Alternative per il socialismo

La crisi politica esplosa in Bielorussia il 9 agosto 2020, dopo le presidenziali vinte per la sesta volta consecutiva da Alexander Lukashenko, rappresenta un laboratorio politico eccezionale in cui un caleidoscopio di forze sociali, politiche e Stati entrano in scena e mostrano nel loro farsi, i processi di trasformazione di una formazione economico-sociale. Per il marxismo, a cui si ispira liberamente chi scrive, un banco di prova per testare un metodo di lavoro nel vivo della lotta, a patto però di essere pronti ad imparare dai fatti concreti senza restare imprigionati in ontologie sociali desuete, a una lettura della composizione di classe arretrata o ancora peggio, a interpretazioni del processo storico geopoliticiste.

Bielorussia: di cosa parliamo?

La Bielorussia è un piccolo paese ex-sovietico incastrato tra Lituania, Lettonia, Polonia, Russia e Ucraina. Senza materie prime e sbocchi sul mare, la sua economia e la sua dialettica politica risentono inevitabilmente delle pressioni dei paesi che la circondano. Nel 1994 il presidente in carica venne eletto sulla base di un programma anti-corruzione e anti-privatizzazioni. Quest’ultimo aspetto divenne il perno su cui Lukashenko costruì il suo duraturo successo politico. La stampa occidentale ha spesso definito il suo regime la Corea del Nord d’Europa ma se si intende comprendere la Bielorussia sarà meglio fare un salto a Pechino.

Alexander Buzgalin,caratterizza il sistema bielorusso come un “capitalismo di Stato paternalistico-autoritario” basato su un’economia ancora largamente statale (il 70% del pil è prodotto da aziende pubbliche), su un rigido controllo della società civile attraverso la rete dei “direttori rossi” nelle aziende e nella pubblica amministrazione e una macchina repressiva flessibile ed efficiente.

Una società per certi versi cresciuta dentro i paradigmi post-sovietici dove le relazione di lavoro, sociali, personali, sessuali sono tipiche di una realtà scaraventata nella contemporaneità senza passare per il ’68. Un modello di successo durato molti anni che ha garantito crescita economica lenta ma costante, servizi sociali e welfare relativamente efficienti, alti tassi occupazionali. Nelly Bekus, ha sintetizzato così il “modello Lusashenko”: “Per due decenni, la legittimità del sistema costruito da Lukashenko si è basata su promesse di sviluppo economico e prosperità; il suo discorso politico si è preoccupato di plasmare un’immagine della Bielorussia come società moderna, attiva e dinamica.

Sotto il suo governo, la Bielorussia ha vissuto diverse crisi economiche, ma si è ripresa e ha continuato a crescere grazie a una combinazione di sostegno russo, prestiti occidentali e investimenti cinesi. Ha sviluppato le risorse ereditate dall’era sovietica, compresi i settori dei macchinari, della chimica e dell’agricoltura, con la sua industria lattiero-casearia al quinto posto nel commercio mondiale del latte.

Anche l’industria IT è fiorita negli ultimi dieci anni. Dopo aver creato l’High-Tech Park nel 2006, il paese è attualmente al 13° posto nel mondo nella sfera dell’outsourcing IT. Nel 2017 la Bielorussia ha liberalizzato il proprio settore IT, diventando uno dei luoghi più favorevoli al mondo per il commercio di criptovalute. Molti di questi sforzi erano dovuti alla necessità di superare la dipendenza economica del paese dalla Russia, ma può anche essere visto come parte di un progetto più ampio di diventare una nazione moderna tecnologicamente avanzata”. Non è tutto oro quel che luccica perché la Bielorussia ha interi comparti industriali arretrati, tuttavia siamo di fronte a un caso in cui l’alto livello di concentrazione di una classe operaia tradizionale si combina con quella post-fordista producendo un general intellect complesso e inedito.

Un quadro assai diverso da quello disperante di alcuni paesi ex-sovietici che le stanno intorno come l’Ucraina e la Moldavia. Il prezzo è stato salato in termini di compressione delle libertà politiche e sindacali ma anche in termini di bassa produttività del lavoro e di fortissima pressione sui salari per garantire l’accumulazione, che hanno fatto della Bielorussia una variante riveduta e corretta del compromesso sociale sovietico da una parte e di quello del capitalismo di Stato cinese – dall’altra.

Lukashenko prigioniero del proprio successo

Il marxismo ha riaffermato più volte che i processi sociali non sono lineari ma si nutrono di contraddizioni, di rotture e di paradossi. In una celebre polemica di Lev Trotsky con Ramsay MacDonald, il rivoluzionario russo fa notare come anche il processo di trasformazione della crisalide in farfalla non è solo evolutivo ma anche rivoluzionario. In questo senso la crisi politica in corso a Minsk è il prodotto del successo del “modello Lukashenko”, è una “crisi di crescita”. Il tentativo di interpretare quanto avviene nel piccolo paese slavo sia da parte di una superficiale e distratta stampa occidentale sia da parte dei cascami dello stalinismo come reiterazione di una rivoluzione “anticomunista” o “colorata” a seconda dei gusti ideologici, non regge a una semplice osservazione della realtà.

Lukashenko è divenuto prigioniero del suo stesso successo e come ogni autocrate ha iniziato a immaginarsi insostituibile, fino al punto di sviluppare un sistema corrotto e nepotistico.

Allo stesso tempo, sull’onda della pressione della crisi economica internazionale iniziata nel 2008 questo modello apparentemente inclusivo ha mostrato delle crepe e Lukashenko si è avviato, more sua, sulla strada di riforme neo-liberali spesso radicali come la riforma delle pensioni, l’introduzione del lavoro a chiamata, i salari variabile dipendente delle commesse delle aziende, l’odiosa “tassa sui fannulloni”. Come ha notato Boris Kagarlitsky, “la società bielorussa ha semplicemente superato il regime di Lukashenko, è cresciuta nella stessa maniera in cui un adolescente cresce tanto da fargli diventare stretti i pantaloni da bambino. Il sistema di potere personale di Bat’ka (padre-capo n.d.r.) del sovchoz non è più «dimensionato» all’economia e alla società, modernizzate e di successo e che per molti parametri supera, per esempio, i vicini baltici”. I paradigmi della “rivoluzione politica” come quelli della “rivoluzione democratica”, per come li abbiamo conosciuti nel XX secolo, risultano inadeguati a spiegare il mutamento in corso in Bielorussia perché qui non solo lo sviluppo delle forze produttive entra in contrasto con il regime politico esistente ma si incrocia con l’emergere di una società civile rigogliosa, simile a quella intravista nei movimenti e nelle rivolte sociali dell’ultimo decennio da occupy wall street fino alla rivolta degli ombrelli di Hong Kong, troppo sbrigativamente ridotte a “insurrezione delle classi medie”.

Giorni che valgono anni

I processi sociali seguono strade tortuose e spesso i mutamenti politici avvengono a passo di lumaca. Nelle fasi di bonaccia è difficile cogliere con nitidezza ciò che si muove nel fondo della società e tutto appare statico. È solo dentro le accelerazioni storiche che tutti i protagonisti vanno a dislocarsi con nettezza nell’agone sociale. In questi contesti si producono dei repentini mutamenti della coscienza, delle idee e degli stili di vita, inimmaginabili in altre fasi.

Il sismografo di questi mutamenti deve allora diventare sensibilissimo proprio perché tutto viene messo in gioco e le alternative che si presentano davanti ai corpi sociali diventano plurime, dimostrando ancora una volta, che seppur in condizioni determinate, sono proprio gli uomini a fare la loro storia. Gli avvenimenti della Bielorussia, in questo senso, non rappresentano un’eccezione: ci sono giorni che valgono anni, e anche le ore hanno una loro importanza.

Fino ai primi mesi di quest’anno era inimmaginabile un cambio politico a Minsk. Lukashenko malgrado qualche scricchiolio si sentiva così sicuro del suo potere da condurre in modo ancora più spregiudicato una politica estera di pendolo che all’alleanza storica con Russia alternava aperture ai paesi Baltici, alla Polonia e perfino agli Usa. Non a caso Putin, indispettito da tanto fornicare, aveva chiuso le valvole delle pipeline a prezzi sussidiati che avevano costituito una parte significativa del successo bielorusso.

Tuttavia la gestione superficiale della crisi di Covid-19 da parte del governo (la Bielorussia è uno dei pochi paesi europei a non avere adottato misure di quarantena) e la pervasiva corruzione che ostruisce l’ascensore sociale ai giovani aveva dato la stura, già in primavera, al movimento popolare “delle ciabatte” portate i piazza come strumento per “schiacciare gli scarafaggi” della burocrazia e dell’oligarchia dominante.

A cui seguirono gli arresti dei principali candidati per le presidenziali, le dichiarazioni ignobili di Lukashenko nei confronti donne, gli scandalosi brogli dentro le urne che aprirono la strada all’esplosione in tutto il paese di un vasto movimento democratico.

Il 9 agosto, quando viene annunciato il plebiscito per Lukashenko, il solito trionfo con l’80% delle preferenze, sono i giovani nella notte a scendere in strada. Si scontrano con la polizia a mani nude, la repressione è violentissima. I reparti di omon si scatenano nella caccia all’uomo, vengono usati le micidiali pistole elettriche, la polizia ferma 3.000 mila persone, centinaia sono gli arresti, 50 invece quelle ricoverate. Il mattino dopo Lukashenko riceve le congratulazioni di Putin e Xi, la Ue resta alla finestra. La candidata dell’opposizione, Svetlana Tikhanovskaya, fugge in Lituania da dove chiede che “cessi ogni violenza perché nessun obiettivo vale tanta sofferenza”. Un messaggio quietistico chi stride profondamente con i sentimenti di chi scende in piazza. Ma chi è Svetlana Tikhanovskaya che il regime accusa di essere un fante della Nato? Si tratta della moglie di Sergey Tikhanovsky blogger anti-corruzione, piccolo imprenditore, finito in manette perché ha pensato bene di presentarsi come concorrente per le presidenziali (La stessa cosa che è successa al filo-russo banchiere Victor Babaryko mentre il terzo candidato Valery Zepkalo è costretto all’esilio). Finisce per presentarsi lei come candidata – Lukashenko non la teme in quanto donna e inesperta di politica – a rappresentare la spinta di cambiamento che viene dal paese. Candidata impolitica per eccellenza, più che rappresentare il popolo dell’opposizione, è uno dei canali usati da quest’ultimo per rappresentarsi. In conferenza stampa il lider maximo definisce i manifestanti «pecore manovrate dai governi britannico, polacco e ceco» e qualche settimana dopo li definirà perfino “topi”. Sono dichiarazioni che fanno infuriare la gente.

La seconda sera dopo il voto le manifestazioni sono ancora più estese e determinate, muore il primo giovane dimostrante (alla fine delle “giornate di agosto” saranno 4 i morti in piazza).

A scendere in piazza questa volta non sono solo giovani ma anche tanta gente comune, persino anziani, che forse in vita loro non si sarebbe mai immaginati di manifestare o tanto meno di partecipare a scontri con la polizia. La violenza delle forze dell’ordine diventa mattanza con violenza inusitata e gratuita, torture. Gli arrestati vengono ammassati nelle prigioni e nei cortili dei commissariati, costretti a stare a terra a capo chino, senza acqua e cibo. Per avere un quadro delle dimensioni della mobilitazione e della repressione varrà la pena di ricordare che a entro fine settembre i fermi sono stati circa 13 mila e gli arresti oltre 300.

Iniziano il movimento degli scioperi e delle assemblee operaie anti-regime, per qualche giorno si sentirà forte il profumo del ’68 parigino quando Minsk e altre città sono attraversate da cortei operai, mentre incrociano le braccia anche i giornalisti della Tv e le maestranze dei teatri e delle filarmoniche. Assemblee e scioperi nei grandi kombinat di origine sovietica come l’automobilistica Belaz, la Mzkt che produce trattori o lo zuccherificio di Zabink. Tra queste non ci sono solo aziende «fuori mercato» ma anche di gioielli di cui tutto il paese va fiero. Come la Belaruskali, 16 mila dipendenti, uno dei maggiori produttori mondiali di cloruro di potassio. È una mobilitazione potente che scuote il regime fin dalle fondamenta e che ha nella richiesta di fine delle violenze terroristiche, ancor prima che di nuove elezioni, il cuore del suo programma. Sarà un risultato che la mobilitazione operaia otterrà agevolmente, a dimostrare quale sia la forza dei lavoratori quando entrano sul palcoscenico della politica con i mezzi e con i metodi che gli sono propri. Vigerà l’incertezza per alcuni giorni persino tra le forze dell’ordine fino a quando il rullo della normalizzazione e della routine faranno ripiegare il movimento – ma senza però riuscire a distruggerlo o frammentarlo.

Il 12 agosto, il quarto giorno di proteste è una data da segnare sui calendari perché le donne bielorusse scendono in campo e danno un segnale potentissimo. Scrivevo così sull’edizione del giorno successivo de Il Manifesto: “Il movimento, sfiancato da 6 mila arresti e con centinaia di feriti negli ospedali, con scarsi collegamenti dovuti alla mancanza di internet e senza una direzione, era ripiegato nei quartieri quando nelle strade e sugli autobus la polizia aveva messo in atto dei veri e propri rastrellamenti picchiando e arrestando chiunque avesse al polso il braccialetto bianco, divenuto simbolo della resistenza al regime. E invece al quarto giorno di proteste in Bielorussia sono entrate in campo le donne a scombinare i piani della dittatura di Lukashenko. È bastato che ieri mattina la rete web tornasse in funzione… perché gruppi di donne di vari quartieri di Minsk con mariti, fidanzati e figli arrestati, prendessero l’iniziativa di organizzare vicino a Piazza della Repubblica una catena umana per chiederne la loro liberazione. La manifestazione, riuscitissima – c’erano davvero donne di almeno tre generazioni – è stata una mossa tattica intelligente per spezzare la soffocante cappa della macchina repressiva e del corto circuito degli scontri di piazza che rischiava di essere un cul de sac per l’opposizione. L’iniziativa aveva un così grande successo che in pochissime ore catene umane di donne iniziavano a formarsi spontaneamente in 40 città”. Le “catene della solidarietà” diverranno uno dei simboli della straordinaria estate bielorussa.

Il movimento assume i caratteri della resistenza nonviolenta di massa di lunga durata visto che la mancata scissione nelle forze dell’apparato repressivo e il sostegno di Putin a Lukashenko riescono a stabilizzare il regime.

Cresce nelle settimane successive un movimento dal basso che si articola in una molteplicità di iniziative e che vive nelle grandi manifestazioni domenicali come nelle feste e nelle assemblee di caseggiato e di quartiere, nei concerti improvvisati. Il 1 settembre all’apertura dell’anno scolastico gli studenti dei licei attraversano Minsk con un grande corteo e indicono assemblee, lo stato di agitazione nelle università diventa permanente.

Arrestati o espulsi dal paese tutti i membri del Comitato di coordinamento dell’opposizione che intendeva essere “la testa” del movimento, la gente dal basso costruisce la propria “linea”: lotta non-violenta e resistenza civile – via il regime – processi giusti per le violenze e le repressioni di questi mesi – nuove elezioni.

Intermezzo

È interessante notare come i poteri statali si siano mossi in tutta questa fase. Putin ha agito con la sua proverbiale cautela e tatticismo, misurando passo dopo passo le mosse da fare. Ma se in tempi “normali”, quando si devono sfruttare le contraddizioni nelle relazioni tra Stati che rispondono a regole più o meno codificate questo approccio può essere vincente, di fronte ai movimenti e alla loro imprevedibilità entra in corto circuito.

Il presidente russo prima ha promosso il tentativo la transizione morbida sullo schema della “rivoluzione di velluto armena” che portasse al potere Victor Babaryko, ma quando Lukashenko ha resistito e ha mostrato gli artigli si è ritratto, incerto, in attesa degli eventi. Infine di fronte alla situazione completamente inedita di persistenza delle proteste – a cui si è aggiunto l’“inciampo” dell’avvelenamento di Navanly – ha fatto marcia indietro tornando, seppur obtorto collo, a sostenere il vecchio conducator.

Ma in tutto questo peregrinare ha continuato a pesare sulle sue scelte come un macigno il timore non solo di perdere un paese importante dell’alleanza strategico-militare ma anche che il virus democratico bielorusso possa entrare nelle case e nei cuori dei russi: se si può fare a Minsk, perché non si può fare, magari non oggi ma dopodomani, anche qui da noi?

L’approccio della Ue (con qualche distinguo della Polonia e dei paesi baltici per ovvi motivi) e degli Usa è stato simmetrico a quello russo. Nei primi giorni le cancellerie occidentali hanno concesso al movimento di protesta un sostegno puramente simbolico, diventato poi più netto nel corso delle settimane quando era diventato evidente che il movimento era ormai una persistenza e si poteva aprire un cuneo profondo dentro il sistema di alleanza strategica russa: tuttavia la strumentalità dietro gli altisonanti appelli alla democratizzazione sono apparsi evidenti. Ora Macron e Merkel vogliono trattare direttamente la fuoriuscita di Lukashenko per intestarsi la futura vittoria e preparare un’integrazione dell’aria Ue che appare non così semplice. Dentro questo quadro il movimento ha mostrato un’intelligenza collettiva straordinaria. L’economia bielorussa è profondamente integrata a quella russa (40% degli interscambi commerciali, dipendenza dalla risorse della Federazione,ecc.) e i legami culturali e sociali sono strettissimi. Il movimento popolare non è scivolato né verso la russofobia né come verso l’esaltazione acritica dei modelli occidentali. La transizione dovrà affrontare inevitabilmente nel futuro i problemi della collocazione internazionale del paese ma, ad oggi, i bielorussi sembrano avere gli anticorpi per non farsi intossicare dalla propaganda che arriva da est e da ovest.

Tre tartarughe

L’inno di questo movimento è diventato una canzone del 2000 del rocker bielorusso Lavon Volski, messa all’indice dal regime, “Le tre tartarughe”. Nella nostra archeologia zoologica immaginaria siamo abituati a pensare alle talpe ma forse ormai sarà tempo di emergere dai tunnel visto che le contraddizioni sono quasi tutte squadernate di fronte a noi: al punto tale che nessuno neppure Lukashenko e Putin credono veramente di poter invertire la rotta di un processo sociale profondo in corso nel paese, ma solo di controllarlo, di frenarlo, di incanalarlo. Si tratta dello stesso obiettivo che in fondo si pone l’Unione Europea.

Prima Tartaruga – la classe operaia

È la tartaruga che conosciamo meglio. La più potente ma anche la più conservatrice. Quella che si affaccia sul palcoscenico bielorusso è in buona parte classe operaia tradizionale, la tuta blu, concentrata in aziende di migliaia se non di decine di migliaia di addetti.

La mobilitazione operaia è particolarmente significativa nel laboratorio di Minsk perché fa a pezzi l’ideologia occidentale che da decenni parla di scomparsa della classe operaia e di sua ininfluenza politica: il proletariato di fabbrica torna, seppure per un attimo, ad avere un ruolo politicamente autonomo. Ma è ancora un ruolo reattivo e non offensivo: quando c’è stato da mettere in campo tutta la propria forza contro la violenza degli omon, i lavoratori si sono mobilitati e hanno imposto uno stop alla mattanza ma quando si è trattato di affondare il coltello nel corpaccione del regime si sono ritratti. Non solo e non tanto per la paura di misure disciplinari nei posti di lavoro o per gli arresti (che pure ci sono stati) ma perché scioperare per vedere arrivare al potere Svetlana Tikhanovskaya e il suo comitato di coordinamento non è cosa che li entusiasma, nicchiano, percepiscono che non è “roba loro”. Del resto il “governo ombra” del “comitato di coordinamento” oltre che parlare di democrazia parlamentare, non ha fatto e ha nessuna intenzione di eliminare le misure antipopolari assunte di Lukashenko. Un passo avanti e uno di lato in attesa che l’avvento della democrazia apra gli spazi per un robusto sindacalismo indipendente. Nel momento del bisogno i sindacati europei hanno fatto come al solito cilecca, segno inquietante di come spesso queste strutture siano diventate solo delle cinghie di trasmissione degli Stati. Ma non siamo nel 1989, cosa significhi la transizione neoliberale i lavoratori delle grandi aziende del paese slavo lo sanno benissimo e si può essere certi opporranno una tenace resistenza a privatizzazioni, deregulation e taglio del welfare. E inevitabilmente porranno la questione salariale visto che i loro stipendi sono giusto la metà di quelli polacchi.

Seconda tartaruga – Le donne

Le donne, attraverso un potente movimento femminista in fieri, sono diventato un elemento autonomo ma unitario del movimento bielorusso con le sue manifestazioni del sabato pomeriggio e le sue catene umane. Si tratta di una spinta che nasce da un straordinario dispositivo: la contraddizione tra l’eccezionale ruolo delle donne nella società sovietica e anche negli Stati nazionali sorti dal suo crollo in quanto collante sociale oltre che economico e riproduttivo e una cultura maschilista istituzionalizzata in una società che non ha conosciuto il ’68. Le donne, dentro questo movimento, sono portatrici se non di una visione immediatamente anticapitalista delle relazioni umane perlomeno di un approccio che rompe con gli eccessi della competizione e dell’individualismo, che confligge con il patriarcato. Si pensi solo che quando per ragioni di immagine a un certo punto la polizia avrebbe voluto arrestare solo i maschi nelle manifestazioni, le donne hanno creato in piazza dei quadrati, dei cordoni, hanno posto i loro corpi tra gli agenti di polizia e i manifestanti maschi. Torneranno a casa le donne in Bielorussia, dopo questo movimento? Non lo sappiamo, ma è certo che la loro coscienza di se stesse e del loro ruolo sociale è radicalmente mutato e da ciò non si tornerà più indietro.

Terza tartaruga – la comunità

Il movimento bielorusso è al contempo un movimento nazionale, democratico, modernizzatore: tutte parole che non dovrebbero farci paura e che stanno nella tradizione dei movimenti più radicali dell’Italia repubblicana. Il movimento del ’77 e anche il ’68-’69 avevano evidentemente anche dei caratteri modernizzanti. Non c’è nulla di cui vergognarsi: la nostra proposta comunista allora fu sconfitta, ma se oggi la nostra società in alcuni aspetti fa meno schifo è grazie a noi, grazie alla nostra critica. Dove non ci sono stati questi movimenti, nei paesi dell’est, abbiamo neoliberismo condito con autoritarismo, ottuso maschilismo e omofobia. Il movimento bielorusso ha scosso fin dalle fondamenta questi pilastri reazionari con il suo protagonismo di massa. Un movimento che sa coniugare l’uso della rete con la partecipazione fisica dal basso nei quartieri. Un movimento orizzontale, circolare che non ha bisogno di leaders né che si nutre di miti. Neppure miti nazionalistici come quelli che abbiamo visto crescere in Ucraina negli ultimi anni, ma vive, almeno per ora, nell’affermazione di una propria cultura e di una propria tradizione separata e originale rispetto a quella russa.

Illusioni? Speranze che andranno deluse? Forse.

Se anche la rivoluzione bielorussa dovesse finire domani, se dovesse sotto una pressione indicibile di forze economiche e statuali trasformarsi in una reiterazione delle transizioni già viste nel 1989, un segnale lo avrebbe comunque dato. Grazie alla loro determinazione e al loro coraggio, i popoli possono fare la loro storia, anche quando i suoi sbocchi non ci piacciano particolarmente.

Fosse solo modernizzante – e non lo è stato – l’agosto bielorusso con le sue donne in prima fila nei cortei, con i ragazzi pronti a sfidare la repressione, resterà una pietra miliare della storia europea del XXI secolo.

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