“NonParlaMosca”, 24 gennaio 2023
Intervista allo storico Pavel Kudjukin sulla guerra tra Russia e Ucraina a proposito di marxismo, dei comunisti russi, delle idee di sinistra e federalizzazione della Russia
Molti intellettuali russi e politici dell’opposizione sono fuggiti dal Paese con lo scoppio della guerra, temendo rappresaglie per i loro scritti contro la guerra o rendendosi conto dell’impossibilità di continuare le loro attività. Ha deciso di rimanere invece Pavel Kudjukin, attivista della sinistra, storico marxista, co-presidente del sindacato accademico universitario “Solidarietà”, ex professore associato di teoria e pratica del governo alla Higher School of Economics, docente alla Libera Università di Mosca e uno dei promotori di “Memorial”.
Dal 1973 ha preso parte ai movimenti sudenteschi indipendenti in URss e poi al movimento socialista clandestino. Nel 1982 è stato arrestato dal KGB con l’accusa di agitazione e propaganda antisovietica e ha trascorso un anno nella prigione di Lefortovo. È stato rilasciato in seguito a un decreto di clemenza del Presidium del Soviet Supremo dell’URSS. Dal 1991 al 1993 è stato viceministro del Lavoro e dell’Occupazione della Repubblica della Federazione Russa.
L’intervista è stata realizzata dal corrispondente per gli affari internazionali di Delfi.lv Lev Kadik, appositamente per “Ne Govorit Moskva”.
– Lei non ha lasciato la Russia, anche se si è schierato apertamente contro la guerra fin dai primi giorni della guerra. Perché ha preso questa decisione? Che cosa la spinge a rimanere nella sua terra d’origine? Non ha paura di rappresaglie?
Innanzitutto, una voce voce si fa sentire forte, se non addirittura più forte, anche all’interno del Paese. In secondo luogo, ciò ha a che fare con le mie attività sindacali. Il nostro sindacato fa parte della Confederazione del Lavoro della Russia, un’associazione sindacale panrussa. Riunisce i sindacati che hanno iniziato a essere creati dal basso intorno al 1989 dai lavoratori stessi.
Sindacati radicalmente diversi dai sindacati sovietici perché si sono formati dal basso. Io chiamo sindacati democratici di classe. Si tratta di sindacati non controllati che non includono rappresentanti del datore di lavoro e a differenza dei sindacati “statali” che compongono la FNPR (Federazione dei Sindacati Indipendenti della Russia), succeduta ai sindacati dell’epoca sovietica. Siamo molto attenti a proteggere i nostri soci e i dipendenti in generale.
Un partito politico può agire dall’estero, ma a condizione che alcuni dei suoi membri agiscano anche all’interno del Paese. Se non c’è nulla nel Paese, il partito morirà prima o poi nell’emigrazione.
Lo sappiamo anche dalla storia dei partiti russi, compresi i partiti russi che sono esistiti in esilio fino ai primi anni ’50 nel XX secolo e poi si sono semplicemente estinti. Ma un sindacato può esistere solo in un Paese.
Naturalmente ho paura di possibili rappresaglie, ma è un rischio professionale normale per un politico di opposizione in un regime autoritario. Se si lavora all’opposizione, bisogna essere preparati a questo tipo di conseguenze. Inoltre, sono stato in prigione sotto il regime sovietico, per un breve periodo, però, circa un anno. Quindi ho già avuto questo tipo di esperienza.
Né il regime di Putin né l’opposizione russa sono stati finora in grado di dare una definizione coerente del significato dell’invasione russa dell’Ucraina. Si tratta di una difesa contro l’Occidente collettivo, di una continuazione della storia russa degli ultimi 300 anni, di un tentativo di restaurare l’URSS, di un progetto personale di Putin o di una “guerra di popolo”. Lei è uno storico di orientamento marxista. Il marxismo, comunque la si pensi, ha un apparato concettuale piuttosto chiaro. Come si può descrivere questo conflitto?
È una domanda molto difficile. Il capitalismo burocratico russo, per dirla con un termine marxista molto classico, è, da un lato, completamente internazionalizzato. È un ramo del capitale globale.
Nel mondo moderno non esistono più capitalismi nazionali. La Russia è iscritta nel sistema globale come economia periferica. In virtù dei resti del suo potenziale militare sovietico, si potrebbe (o, visto l’andamento della campagna in Ucraina, piuttosto, potrebbe) affermare che sia semiperiferica.
Allo stesso tempo, anche il capitale nazionale ha cercato di espandersi all’esterno. Ma l’espansione nei Paesi più sviluppati è difficile per il capitale russo. Anche la competizione con i capitali occidentali nell’ex Unione Sovietica è difficile.
Da qui il desiderio di sostenere questa espansione con metodi politici e persino con la forza: con un’idea, molto arcaica per il mondo moderno, di garantire le zone d’influenza come qualcosa di determinato da accordi, da pressioni energiche, piuttosto che da un reale potenziale economico.
Da qui l’idea che in generale le ex repubbliche sovietiche, ad eccezione dei Paesi baltici, che hanno già aderito all’UE e alla NATO, debbano essere tenute sotto il controllo dalla Russia con ogni mezzo.
Questa è la base anche del sostegno di Lukashenko in Bielorussia, tra gli altri, e dei tentativi prima del 2004, prima della prima Maidan, di mantenere l’Ucraina nella sfera della sua influenza politica.
I tentativi dell’Ucraina di enfatizzare la propria identità e di ritirarsi dalla sfera d’influenza russa non potevano essere accettati dall’élite politica russa, che ragiona secondo il paradigma della storiografia russa imperiale di Ilovajskij, mescolata in modo molto particolare con il Breve Corso di Storia del PCR(b).
In effetti, se guardiamo ai discorsi di Putin o di Patrushev (il direttore del Fsb N.d.R.) sul tema della storia, cogliamo concetti e affermazioni superati, non solo messi in discussione, ma già da tempo confutati. Questo è un po’ la loro base ideologica: Ucraina e Russia sarebbero “un solo popolo” di “destino storico comune”. Si tratta di concetti completamente staccato dalla realtà e lontano dalla scienza storica moderna.
La prima Maidan del 2004 ha davvero spaventato il Cremlino. Da qui la paura delle “rivoluzioni colorate” e tutta la retorica di allora e degli anni successivi secondo cui esse sarebbero state ispirate dall’esterno da forze ostili.
Ma la secondo Maidan, quella del 2013, e ancor più il fallimento dei tentativi di creare le cosiddette “repubbliche popolari” a Charkiv, Cherson, Mykolayiv e Odessa nel 2014, hanno rappresentato il punto di non ritorno.
Il Cremlino ha quindi concluso che era necessario concentrarsi su una soluzione di forza: da qui l’annessione della Crimea, la creazione da parte di agenti russi dell’LDPR e l’ulteriore sostegno a quest’ultimo.
Ovviamente, l’esercito russo, nello stato in cui si trovava nel 2014, non poteva far fronte ai compiti che il Cremlino gli aveva assegnato cioè conquistare le regioni di Donetsk e Luhansk. Pertanto, gli accordi di Minsk sono stati visti esclusivamente come un cessate il fuoco da entrambe le parti. E l’anno scorso al Cremlino hanno deciso che avevano accumulato forza e potevano vincere.
Si aspettavano che fosse una “Campagna di Liberazione 2.0”, ovvio. E questo è un indicatore del livello di professionalità della intelligence russa. Per avere una comprensione così scarsa della situazione in Ucraina, ce ne vuole. Ciò è in parte dovuto anche al fatto che, come in tutti i regimi autoritari, a Putin viene riferito solo ciò che voleva sentire.
– Quindi non crede che si tratti di una continuazione di 300 anni di storia russa, delle sue secolari tendenze imperiali?
No, questo è un fenomeno nuovo. Tutte quelle costruzioni pseudo-storiche, che cercano di far risalire tutto a Rurik o alla conquista mongola, non funzionano molto bene. C’è un’influenza delle rappresentazioni pseudo storiche delle élite russe, ma questa guerra si svolge in un mondo completamente diverso.
Possiamo dire che questa è un’altra guerra russo-ucraina, perché ce ne sono state diverse. Nel 1917-1921 e nel XVII secolo, che pochi ricordano.
Poi, quando l’etmano dell’Ucraina di Ivan Vyhovsky cercò di ristrutturare la Rzeczpospolita e di farla diventare da una repubblica di due nazioni – Polonia e Lituania – una repubblica di tre nazioni, per creare un terzo soggetto di questa confederazione, il Granducato di Russia non ebbe successo ha avuto successo ma combattè con successo con lo zar di Mosca.
Il posizoinamento dei cosacchi ucraini a fianco della Polonia al tempo del Periodo dei Torbidi – può essere chiamata anche Guerra russo-ucraina (Stanislav Zholkevsky, che comandò la guarnigione polacca a Mosca nel 1611, era per nascita un nobile ortodosso di Leopoli – N.d.T.).
Anche l’episodio di Mazepa (l’etmano di Zaporozhye Mazepa che si schierò con la Svezia durante la Guerra del Nord tra Russia e Svezia- n.d.t.) fu una sorta di guerra.
Tutto ciò contraddice la concezione ufficiale di “nazioni fraterne” e ancor di più quella di “un solo popolo”. Si può dire che si tratta di una continuazione di quelle relazioni conflittuali, causate dalla riluttanza della Russia a comprendere la natura speciale dell’Ucraina e dal desiderio di sottometterla a Mosca o a San Pietroburgo. Tuttavia ancora una volta, sta accadendo in un mondo completamente diverso – un fenomeno nuovo.
– Possiamo definire questa guerra una guerra coloniale?
In un certo senso, sì. Ma credo che questa sia una semplificazione. È una guerra coloniale dal punto di vista che la Russia nega la soggettività del popolo e dello Stato ucraino e quindi si permette qualsiasi metodo di guerra.
Tuttavia, quando i propagandisti russi dicono che russi e ucraini sono un unico popolo, allora saremmo a una guerra civile, giusto?
ci sono queste dichiarazioni propagandistiche secondo cui la Russia è in guerra con alcuni tossicodipendenti, nazisti e banderisti. Ma non funzionava all’inizio della guerra e non funziona ora.
Queste dichiarazioni non hanno prodotto interesse nemmeno i cittadini ucraini che inizialmente erano filorussi. Nelle prime settimane di guerra hanno smaltito la sbornia e hanno perso tutte le illusioni sulla Russia. E questo ha davvero sorpreso i propagandisti russi.
Ecco perché la propaganda russa, ufficiale e ufficiosa, è ora in completa confusione: non capiscono cosa bisogna dire loro.
In Ucraina non sono riusciti a convincere nessuno di nulla, è stato un fallimento completo. Ora la propaganda ufficiale si è concentrata sul fatto che non saremmo in guerra con l’Ucraina, ma con l’intera NATO, il che è anche una negazione della soggettività ucraina.
– Lev Gudkov ha dichiarato in un’intervista allo “Spiegel” che la società russa è amorale e i russi si identificano con lo Stato per abitudine sovietica, e il sostegno alla guerra raggiunge il 70%. Cosa ne pensate: la guerra ha davvero un ampio sostegno tra i cittadini russi? E il regime potrà godere di questo sostegno ancora a lungo?
È difficile fare previsioni perché il Cremlino sta cercando di legare al suo regime il maggior numero di persone possibile, se non con il sangue, almeno con i calzini di lana, si invita a lavorare a maglia per i mobilitati.
In effetti, la risposta è piuttosto debole. Non direi che c’è un consolidamento del sistema. Anche se si giudica da segni esterni, come la lettera Z sulle auto private, è qualcosa di molto raro. Certo, ci sono alcuni personaggi strambi che mettono la Z sui vestiti o sugli zaini, ma anche questi personaggi sono rari.
Anche a questo livello simbolico, che non richiederebbe grandi sforzi per dimostrare la propria fedeltà al sistema, si vede poco.
Per lo più, lo stato d’animo, direi, è “quando finirà?”. In che modo finirà, la gente non lo sà ed è piuttosto ambivalente sull’argomento. Se si fosse conclusa, ad esempio, con la rapida capitolazione dell’Ucraina, la gente sarebbe stata molto felice.
Ma più si va avanti, più è probabile che accettino una situazione in cui le truppe russe escono dall’Ucraina e, se non il confine del 1991, lo status quo viene ripristinato al livello dal 24 febbraio 2022. La gente in Russia tirerebbe un sospiro di sollievo. Ma allo stesso tempo, sì, i russi percepiscono tutto passivamente.
Questa è probabilmente la caratteristica principale della società civile, dell’ atteggiamento pubblico: la passività. “Nulla dipende da noi, quindi non proveremo a far nulla”. “Siamo stati spinti, ci siamo caduti, lo hanno imposto, siamo andati”, recitava una vecchia battuta dell’esercito.
Ma la cosa più importante è che tutto questo può cambiare in qualsiasi momento. Non appena le autorità abbassano la guardia al loro interno o sul campo di battaglia, l’umore della popolazione inizia a cambiare. E’ un passaggio molto importante, ma è difficile prevedere quando accadrà.
– È un momento molto importante, credo. Tutti possono cogliere che l’esercito russo è stato sconfitto in Ucraina, anche nonostante alcuni successi locali come la recente cattura di Soledar. È chiaro che la guerra non sta andando secondo i piani. Il corso stesso di questa guerra non è forse un segnale di un graduale cambiamento di sentimenti?
In larga misura, sì. È importante anche il fatto che la guerra si svolga in territorio straniero. È caratteristico che questi “Brecherendum” (“referendum” non riconosciuti sull’adesione alla Russia tenutisi nel settembre 2022 – ndr) sui territori occupati siano stati percepiti con totale indifferenza.
Nessuno si è rallegrato, tranne coloro che erano stati cacciati, con un “ah, abbiamo aggiunto territori e popolazione”. Piuttosto, è stato percepito con sconcerto e le autorità si sono messe in una situazione di assoluto stallo da cui non sapevano come uscire.
Le sconfitte del governo avranno un impatto molto pesante sul pubblico. Le masse russe sono scontente di molte cose, ma cercano di stare dalla parte delle autorità perché queste hanno il potere alle spalle. Lo si vede chiaramente nelle campagne elettorali, la gente dice cose come: “Beh, mi piace Zjuganov, se fosse al potere voterei per lui”.
– Visto che sta parlando di Zjuganov, perché pensa che i comunisti in Russia abbiano appoggiato la guerra?
– Abbiamo dei comunisti molto particolari. C’era un tempo il menscevico Boris Nikolayevskij, molto impegnato nella storia del movimento di liberazione in Russia. Analizzò molte attività dei comunisti.
In una delle sue opere, fa un’osservazione molto importante: dice che i comunisti russi si sono evoluti da ala ribelle del movimento operaio internazionale al totalitarismo burocratico.
Il Partito Comunista della Federazione Russa è l’erede di questo totalitarismo burocratico, e aggiungerei a ciò anche un risentimento imperialista nazionalista: crede che questa guerra sia un movimento per restaurare l’Unione Sovietica.
Si tratta di un’assurdità, ovviamente, e di un completo fraintendimento della situazione. Alla vigilia della guerra Putin abbia detto senza mezzi termini: “Vi daremo una vera e propria decomunistizzazione”. Beh, i comunisti russi potrebbero averci pensato, ma a quanto pare non è una loro peculiarità, quella di pensare.
A questo proposito, ovviamente, è sorprendente come la propaganda russa riproduca i nomi sovietici: chiama Bakhmut Artemivskoye, Dneper, Dniepropetrovskoye, ecc.
Quello che fa ridere è il fatto che si continui a chiamare Soledar Soledar, perché in realtà fino al 1991 si chiamava Karl-Libknechtovskij.
Allo stesso tempo, esiste un’opposizione comunista molto leggera, ma contraria alla guerra, nel che stanno in qualche modo cercando di emulare la posizione bolscevica della Prima Guerra Mondiale: “lo scontro dei due predatori imperialisti”, “l’uno vale l’altro”, dicono.
E alcuni comunisti hanno perfino una posizione completamente perversa: “dobbiamo sostenere l’imperialismo più debole contro quello più forte”. Si tratterebbe di russi contro americani. In questi casi pongo loro una domanda: negli anni ’30 avreste sostenuto l’imperialismo tedesco più debole contro quello anglo-americano più forte?
In qualche modo eludono la risposta e si confondono.
– Perché i movimenti di sinistra non ha avuto successo in Russia dopo il crollo dell’URSS? Dopo tutto, c’erano partiti socialdemocratici in Europa centrale in Polonia, nella Repubblica Ceca. Perché l’idea di sinistra è stata così screditata in Russia?
Questa è una domanda molto dolorosa per me. Il motivo principale, ovviamente, è che la società sovietica non era una “società di sinistra”. All’inizio dell’Unione Sovietica esistevano alcuni “elementi di sinistra”, ma non è mai stata una società egualitaria, aveva una rigida gerarchia.
Il principio del movimento operaio della “parità di retribuzione a parità di lavoro” non è mai stato rispettato in URSS.
Basta ricordare la folle gerarchia delle razioni (oltre una dozzina di varietà) già dell’epoca del “comunismo di guerra”. Non c’è mai stato, di fatto, alcun segno di uguaglianza.
Sì, tutto era a un livello misero, ma il sistema salariale ufficiale sovietico alla fine del comunismo di guerra comprendeva ben 18 livelli (nel 1972 c’erano 75 schemi di determinazione dei salari per i lavoratori del settore metalmeccanico – n.d.r).
Inoltre, la gerarchia sovietica non si basava tanto sui principi di reddito e proprietà quanto sull’accesso al potere.
Lo stesso rublo nelle tasche di uno studente della nomenklatura di livello distrettuale minore e quello, ad esempio, di un insegnante aveva un peso diverso in termini di capacità di spesa: lo studente della nomenklatura poteva comprare di più in un centro di distribuzione speciale rispetto all’insegnante in un negozio normale.
– I pantaloni rossi del film “Kin-dza-dza” erano proprio così…
-È interessante notare che durante la perestrojka coloro che erano a favore del cambiamento si definivano di sinistra, mentre i conservatori comunisti venivano chiamati di destra. Questo fino al 1990 circa. Ma poi la situazione è cambiata: i politici russi hanno cercato di applicare a se stessi i criteri politici occidentali e le cose si sono fatte molto confuse.
Sullo sfondo di una società sovietica gerarchizzata, la retorica di sinistra delle autorità ha provocato un forte malumore per la fine dell’URSS.
Tra l’altro, molti politici del movimento polacco Solidarność consideravano la socialdemocrazia polacca post-comunista come “comunisti riverniciati”, che portavano avanti politiche di destra sotto le insegne della sinistra: privatizzazioni e riduzione dei programmi sociali. Al contrario, la destra polacca, per quanto strano possa sembrare, ha adottato una politica sociale paternalistica.
Questo è un punto importante, perché ciò che intendiamo come politica di sinistra non è paternalismo sociale.
Questa tutela esiste anche a destra e arriva persino a dire che, come in Polonia, è lo Stato a decidere se una donna può avere o meno il controllo del proprio corpo.
– Qual è in realtà l'”idea di sinistra”, se non il paternalismo e lo statalismo?
-L’idea di sinistra è in realtà l’idea di auto-organizzazione, di un movimento di base attivo: “lottiamo per i nostri diritti”, “nessuno ci libererà, né Dio, né il re, né un eroe, ci libereremo con le nostre mani”.
È l’idea della lotta per i propri diritti – civili, sociali, politici – dei vari gruppi sociali e delle minoranze che vengono negati dalla gerarchia esistente, soprattutto quella capitalista.
La lotta per una retribuzione dignitosa, per i diritti civili, per la rappresentanza politica, il femminismo, la lotta contro il razzismo e la xenofobia, il movimento contro la guerra, la lotta per la parità di accesso all’istruzione e all’assistenza sanitaria, la lotta contro la corruzione, la lotta per l’autodeterminazione nazionale, l’anticolonialismo: sono tutte idee di sinistra.
E in molti Paesi che non sono formalmente di sinistra, questa lotta viene portata avanti con successo.
La nostalgia dell’URSS, dell’assistenza statale, non ha nulla a che vedere con l’idea di sinistra. Facendo leva su questa nostalgia, i comunisti russi hanno semplicemente sbarrato la strada al vero movimento di sinistra.
Molti ucraini di sinistra, tra l’altro, hanno approvato la messa al bando del Partito Comunista di Ucraina nel 2015. Hanno detto: “Sì, è difficile per noi sostenere ciò, ma senza queste persone sarà più facile per noi”.
Inoltre, la sinistra russa non riesce a trovare un linguaggio normale e comprensibile per le sue idee. A dire il vero, anche le loro idee non sono molto buone.
Per molti aspetti, si tratta di rimaneggiamenti di programmi occidentali, di idee occidentali, e anche la sinistra occidentale è in crisi, perché la crisi dell’idea di sinistra è di natura globale. Anche le idee della sinistra occidentale contemporanea non si traducono bene nella nostra lingua madre, non si trasferiscono bene su scala nazionale.
Il problema è anche che la sinistra, purtroppo, non è stata in grado di inventare alternative al capitalismo moderno e di conseguenza si è adattata e si è impegnata al massimo ad aggiustarlo.
E quando il populismo di sinistra cerca di assumere una posizione più radicale, anch’esso non trova di meglio da fare che tornare agli slogan dei tempi dell’antica polis: “redistribuzione della proprietà, cassazione dei debiti”.
Il mondo sta affrontando problemi giganteschi e la sinistra non ha una risposta, e molti non cercano nemmeno di trovarne una.
Tuttavia, la ragione principale è che, in sostanza, il Partito Comunista russo non è affatto di sinistra. È un partito conservatore, clericale, di estrema destra, nazionalista in senso imperiale.
La loro politica morale, tra l’altro, è anch’essa di destra: sono a favore della limitazione dell’aborto, contro l’educazione sessuale. “Una donna dovrebbe partorire e rimanere a casa” è una formulazione strettamente conservatrice della questione. È la politica morale dell’ala trumpiana del Partito Repubblicano statunitense.
Inoltre, intendono la giustizia sociale in un modo molto specifico, ossia “condivideremo tutto”. Le loro idee in merito sono quasi mussoliniane: “Tutto nello Stato, tutto attraverso lo Stato, niente a parte lo Stato”.
I “comunisti” russi, in sostanza, differiscono molto poco da Russia Unita. Sono due ali di un unico partito di destra.
– Molti in Russia e all’estero credono ancora che il putinismo sia essenzialmente di sinistra, perché contiene sia statalismo che paternalismo. Possiamo dire che lo Stato russo moderno è un progetto politico di destra?
Senza dubbio, lo è. Il fatto è che è molto diffusa l’idea che lo statalismo sia un’idea di sinistra. No, non lo è! Può essere di sinistra, ma nel mondo moderno è più spesso di destra.
Anche il paternalismo di Putin è molto relativo. Che tipo di paternalismo è quando l’età pensionabile viene innalzata e le pensioni stesse sono ben al di sotto degli standard raccomandati dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro in relazione ai salari?
Che razza di sinistra è questa se l’economia russa è ancora un’economia di lavoro a basso costo? Il progetto di Putin è un progetto di destra, sempre più apertamente fascista.
– La Costituzione russa afferma che la Russia è uno Stato sociale. Lo è? La Russia di Putin può essere considerata uno Stato sociale?
No. Sono profondamente convinto che uno Stato sociale sia quello in cui c’è un dialogo sociale, non quello che si limita a curare finanziariamente alcuni gruppi di persone.
La Germania nazista, ad esempio, aveva una forte politica sociale, ma non era uno Stato sociale, proprio per la mancanza di dialogo sociale.
Uno Stato sociale è uno Stato democratico, in cui esistono forze sociali diverse con interessi sociali diversi, ma che cercano i mezzi per raggiungere in qualche modo un accordo e trovare i compromessi necessari. Il corretto stato sociale è il risultato di un tale compromesso, un dialogo sociale.
Ma non abbiamo agenti per il dialogo sociale, solo l’apparato statale stesso, che decide da solo: “Ho dato a questo, non ho dato a quello, ecc. “.
È possibile credere che il regime di Putin sia alla sua crisi finale?
Mi piacerebbe molto crederci. Ed è generalmente evidente che si trova in una crisi molto profonda. Il caos con i comandanti delle truppe in Ucraina è un segnale di tale crisi. Si può paragonare al rimpasto ministeriale del 1916. Ma il marciume può andare avanti per molto tempo, soprattutto quando la società è passiva.
– Si prevede una nuova ondata di mobilitazione. Come pensa che sarà accolta?
– Sarà più difficile della precedente. Coloro che erano pronti a obbedire sono andati a combattere con la prima ondata, e molte persone saranno meno disposte ad andare nella seconda ondata. Ciò sarà dovuto alla situazione al fronte e al numero di morti e funerali. È chiaro che le autorità stanno cercando di bloccare queste informazioni, ma verranno comunque diffuse e agiranno per creare un atteggiamento negativo nei confronti della guerra e della mobilitazione.
È anche importante capire che la mobilitazione riguarda meno le grandi città.
L’altro giorno sono stato a Kazan, e lì la mobilitazione è qualcosa di sconosciuto, ma nell’entroterra rurale del Tatarstan è molto evidente. Questa è la parte di popolazione che, per così dire, più silenziosa e in cui le informazioni vengono diffuse in una cerchia più ristretta.
Ma anche la Russia profonda tace e potrebbe iniziare parlare quando ne avrà abbastanza. Inoltre, non è possibile evitare la mobilitazione nelle grandi città per molto tempo. E nelle grandi città sta già diventando pericolosa.
Anche gli insuccessi militari e le critiche dei falchi alle autorità militari influenzano la situazione. Ricordo sempre che nel febbraio 1917 non c’era solo un sentimento contro la guerra, ma anche un sentimento di “rivoluzione per la vittoria”: rovesciamo lo zar idiota e poi avremo la possibilità di vincere. In ogni caso la situazione è sconvolgente.
– Immaginiamo che quel giorno sia arrivato: il regime è crollato. Secondo lei, quale dovrebbe essere l’agenda di riforme prioritarie del nuovo governo, essenziale per evitare di ricadere nel percorso di costruzione di una nuova dittatura e di un nuovo impero?
Prima di tutto la riforma costituzionale: repubblica parlamentare, federalista con una responsabilizzazione delle autonomie locali, con una riforma obbligatoria del sistema fiscale e di bilancio e il suo decentramento.
La riforma del sistema giudiziario è obbligatoria, dopo che dei giudici hanno emesso sentenze ingiuste e partecipato alla repressione politica. La struttura investigativa dovrebbe essere riformata.
L’FSB dovrebbe essere abolito. Il servizio di sicurezza dovrebbe essere ricreato da zero, impiegando i pochi professionisti ancora presenti. Il Servizio di frontiera dovrebbe essere separato con un’agenzia distinta. Anche i servizi segreti esteri dovranno essere riformati. Il Servizio di Sicurezza Federale dovrebbe essere fortemente ridotto e forse addirittura abolito.
Il Servizio dellaRossgvardija dovrebbe essere abolito e le sue unità dovrebbero essere trasferite ad altre agenzie.
Ci dovrebbe essere l’istituzione di polizie regionali e municipali e un minimo di funzioni per la polizia federale, come la lotta al crimine organizzato, eccetera. L’esercito dovrebbe essere riformato secondo il modello svizzero: lì l’esercito è di leva, ma semi-militare.
Anche la Russia dovrebbe essere denuclearizzata. Ho un suggerimento un po’ esotico: un’iniziativa per creare una forza nucleare internazionale sotto l’egida dell’ONU, con il trasferimento degli arsenali nucleari nazionali ad esso. Questo potrebbe essere fatto unilateralmente. La Russia è troppo grande perché qualcuno possa tentare di occuparla.
– E l’economia?
La mia proposta è leggermente ambivalente. Da un lato la socializzazione delle industrie di base e la liberalizzazione delle condizioni per lo sviluppo delle piccole e medie imprese. La creazione di aziende pubbliche socializzate, gestite da rappresentanti dei lavoratori, dei consumatori e dello Stato.
Queste aziende dovrebbero essere incluse nelle relazioni di mercato, ma il loro lavoro dovrebbe includere elementi di pianificazione indicativa. Si tratta ancora di un’idea approssimativa. Nelle medie e piccole imprese, lo Stato deve creare le condizioni per lo sviluppo e non può fare altro.
– Il tema della disintegrazione della Russia dopo la sconfitta in questa guerra è diventato un tema molto di moda in Occidente. Diversi analisti e attivisti dell’opposizione ci invitano a prepararci a questo crollo. Pensa che uno scenario del genere sia possibile?
Finora non vedo alcun presupposto per la disintegrazione. È possibile che, in caso di grave sconfitta, alcune regioni si stacchino “ai bordi”. Ad esempio, alcune regioni del Caucaso settentrionale.
D’altra parte, essendo profondamente sovvenzionate, sono molto interessate a ricevere denaro da Mosca. Ma la domanda è: i soldi andranno via? In caso contrario, possono crollare e cercare un nuovo padrone. Tuva, ad esempio, potrebbe abbandonare, ma è anche una regione profondamente sovvenzionata.
Si può naturalmente immaginare che i nostri “emirati del petrolio” – le regioni siberiane – vogliano l’indipendenza, ma non hanno altra scelta che andare verso l’Oceano Artico. Questo è difficile. E poi dipendere dalla parte europea della Russia, attraverso la quale verranno pompati il petrolio e il gas: che senso avrebbe?
Un maggiore decentramento e una vera federalizzazione, o addirittura confederalizzazione del Paese, con ampi poteri per le regioni, sono perfettamente realistici.
E penso addirittura che queste regioni potrebbero non rientrare negli attuali confini amministrativi, ma saranno in qualche modo riformattate in unità più grandi che chiederanno maggiori diritti, risorse e la cessione delle loro ricchezze.
– Chi pensa possa diventare l’agente di questa federalizzazione?
Gli attuali leader delle regioni russe sono, ovviamente, degli incaricati da Mosca e non rappresentano le loro regioni.
Ma c’è un secondo livello di élite regionali, persone e gruppi che sono attratti dalla posizione piuttosto degradante delle regioni, che Mosca tiene al guinzaglio corto – togliendo loro tutto e restituendo ancora meno.
Questo fa parte della burocrazia locale, che è migliore di quella federale. Sono in qualche modo più umani, almeno secondo la mia esperienza, a quanto pare perché sono un po’ più vicini al suolo. È una specie di azienda regionale di medie dimensioni.
– La Russia ha cercato di diventare una federazione due volte, la prima sotto i bolscevichi negli anni ’20 e la seconda nel 1993. Ma entrambe le volte non ha funzionato. Perché questa volta dovrebbe avere successo?
Ho un conoscente che pensa che la Russia non possa essere una federazione, ma uno Stato di autonomie, queste formazioni regionali che non sono Stati, ma che hanno diverse quantità di autorità locali all’interno dello Stato. Perché una federazione è un’unione di Stati o quasi-Stati.
La Spagna è un classico esempio di Stato delle autonomie, dove le divisioni amministrative sono “comunità autonome” asimmetriche – regioni con più poteri locali in Euskadi (Paesi Baschi) e Catalogna (così come Navarra, Galizia e Andalusia – ndr) e meno in altre. Ci sono grandi problemi, ovviamente, ma la Spagna esiste e rimane uno Stato unitario.
Ma non ho dubbi che dovremo ricostruire la Russia come federazione e tutto dipende dalla profondità della crisi.