Il ritorno di Victor Serge






Victor Serge, al secolo Viktor Kibal’cič, figlio di esuli politici russi emigrati in Belgio, attraversò la prima metà del XX secolo da rivoluzionario eretico, cosmopolita, saggista e romanziere. Prima anarchico individualista in Francia ai tempi della Banda Bonnot, poi protagonista d’Ottobre dei primi anni del potere sovietico, oppositore di sinistra a Stalin e deportato in Siberia, infine socialista libertario nell’esilio messicano, Serge è stato uno dei più grandi testimoni della sconfitta dell’“assalto al cielo” di una generazione di giovani.

Bisogna ringraziare l’editore Fazi se Il caso Tulayev, a nostro avviso il più bello tra i romanzi di Serge, sia tornato nelle librerie nel 2017 con l’inedita e puntuale introduzione di Susan Sontag. Il libro ha un suo doppio ne Il buio a mezzogiorno di Arthur Koestler, anch’esso ambientato nella Mosca del “Grande Terrore” staliniano. Ma lo spessore psicologico dei personaggi e la ricostruzione del contesto politico della novella di Serge sono ben più complesse e profonde di quelle dello scrittore britannico. E non solo perché Serge ha vissuto a Mosca in prima persona quel clima, ha sentito vibrare nelle sue viscere i passi pesanti degli agenti della NKVD nei corridoi delle segrete della Lubjanka, ma soprattutto perché Serge a differenza di Koestler non diverrà mai un ex-comunista e neppure un “non più comunista” (come nella sottile distinzione tra le due figure di Annah Arendt) ma piuttosto un comunista disincantato e tragico. Il Serge de Il Caso Tulayev è già lontano dagli stilemi deterministici del materialismo storico nel suo riconoscimento del ruolo del caso e della psicologia. “Serge è impegnato a mettere in luce l’illogicità della storia, delle motivazioni umane e del corso dell’esistenza dei singoli, della quale non si può mai dire se ciò che avviene sia meritato o immeritato” annota Sontag. I due personaggi principali del romanzo, nella fattispecie, hanno entrambi un destino inatteso. Romachkin che ha non avuto il coraggio di uccidere il capo di partito Tulayev diventa uno stimato burocrate. Kostja invece che ha commesso l’omicidio quasi casualmente, si autodenuncia ma la macchina della repressione di massa è già in moto ed è costretta a risparmiarlo per non delegittimarsi, cosicché il giovane troverà rifugio in Siberia e in nuovo amore. Il libro, terminato nel 1942, vedrà la luce solo nel 1948 per motivi “diplomatici”. “Il mio romanzo è stato giudicato a New York impubblicabile “in questo momento” in virtù di una “legge non scritta”… che impedisce di criticare il dispotismo russo, “our ally”” annota egli stesso nei Carnets.

La magnitudo terribile della storia e delle rivoluzioni la troviamo invece ne L’anno primo della rivoluzione russa ripubblicato da Castelvecchi a distanza di oltre 50 anni dall’edizione einaudiana.

Si tratta della prima grande opera storica di Serge. Benché scritto alla fine degli anni ’20 il libro mantiene tutta la sua vividezza anche se le pagine sono intrise inevitabilmente dei cupi timori già presenti nei suoi scritti sulla insurrezione tedesca del 1923. Serge ripercorre i primi dodici mesi della rivoluzione non solo tra Mosca e Pietroburgo ma ci porta anche nelle provincie più sperdute oltre gli Urali e in Ucraina tra carestie e guerra civile.

Una coralità di uomini e donne, soldati e operai mai agiografica che fa di questo libro uno straordinario diario di bordo della rivoluzione sovietica. Con rapidi colpi di pennello l’autore è in grado di portare il lettore dentro clima di quei mesi: “La sera tutte le città erano sommerse dalle tenebre… i quartieri erano degli alveari affamati… grida di panico salivano la sera al di sopra di Kiev. Sembrava a momenti che i banditi fossero diventati i veri padroni di Odessa”. A cui si intrecciano, senza soluzione di continuità, i capitoli sulla battaglia per la Finlandia e gli squilli insurrezionali della Berlino spartachista, a ricordare come quella rivoluzione si percepisse mondiale.

La transizione del bolscevismo da movimento internazionalista a fenomeno autoritario la troviamo in Da Lenin a Stalin rimesso sul mercato da Baldini & Castoldi quattro anni fa e datato 1936. Saggio agile, coinciso, denso di dati e rimandi ebbe un significativo successo negli anni ’70 quando Savelli lo ristampò più e più volte. Rimane ancora oggi il successo editoriale di Serge più importante in Italia dopo le Memorie di un rivoluzionario. E non solo perché rappresentava per quell’epoca un vero vademecum per il “perfetto militante antistalinista” ma perché, al contrario, il breve testo sfugge a ogni catechesi, non è un “bignami marxista”.

Da Lenin a Stalin, per certi versi, è il testamento spirituale e politico di Serge.

Egli pur riconoscendo che lo stalinismo affonda le sue radici anche nell’esperienza bolscevica non lo considera il suo inevitabile epilogo.

“Si dice spesso che il germe di tutto lo stalinismo c’era già nel bolscevismo delle origini. Bene, non ho obiezioni. Solo che il bolscevismo conteneva anche molti altri germi, una massa di altri germi, e coloro che hanno vissuto l’entusiasmo dei primi anni della prima rivoluzione socialista vittoriosa non dovrebbero dimenticarlo. Giudicare l’uomo vivente dai germi di morte che l’autopsia rivela nel cadavere – e che potrebbe averlo portato con sé sin dalla nascita – ha senso?”

Sono tutti temi che ritroviamo ancora in Destino di una rivoluzione di un anno successivo (1937) proposto per la prima volta in lingua italiano dall’editore Roberto Massari. Un testo in cui l’autore si concentra sui caratteri intrinseci del totalitarismo russo, che sarebbe utile leggere assieme alla Storia sociale dello stalinismo di Moshe Lewin. Il ruolo della classe operaia, della burocrazia, della gioventù, delle donne, dell’esercito vengono analizzate al microscopio. Un quadro vivo dell’universo totalitario mai sociologico, sempre alla ricerca di spunti che possano riaprire la partita dell’emancipazione umana.

Per Serge il destino individuale, non può essere sopravvalutato o esagerato. “Come la natura anche la storia in via di compimento non è giusta né ingiusta: è necessaria. Le capita di stritolare coloro che, con tutto il loro spirito, intendono trasformarsi in suoi strumenti. Ciò non ha grande importanza… Il rivoluzionario, pervaso da questa convinzione, non offre più prese al rancore, all’amarezza, al risentimento, alle fragili piccole ragioni della sua minuscola avventura personale”.

Del resto il destino personale di Serge è inestricabile degli andirivieni della lotta di classe. Il cosmopolita Kibalcič muore nel 1947. Quando Julian Gorkin suo grande amico e dirigente dell’epopea del POUM in Spagna, preparò i documenti per la sua inumazione il direttore della società di pompe funebri si rifiutò di accettare la dizione di “apolide”. Allora Gorkin chiese a Vlady, il figlio di Serge, secondo quale nazionalità avrebbe preferito sepolta il figlio rispose “la spagnola”. Non avrebbe potuto che essere così: il russo-belga-francese riposa a Città del Messico e verrà ricordato dai posteri come spagnolo.

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