Yurii Colombo, Urss, un’ambigua utopia. Cause e conseguenze del crollo dell’impero sovietico, Massari, 2021, pp. 248, € 18,00.
Nel programma del Pcus presentato al congresso del 1961 si proclamò raggiunta la fase del socialismo annunciando il comunismo per il 1980, con settimana lavorativa di 20 ore, gratuità di casa, utenze, vacanze, consumazioni al bar e al ristorante. Passata la fatidica data, si dice che Andropov, segretario del partito nel biennio 1982-84, abbia confessato a un suo collaboratore: «Ma quale diavolo di socialismo dispiegato. Dobbiamo ancora lavorare e lavorare per arrivare al più semplice socialismo».
Che cosa fu quindi l’Urss: una distopia totalitaria come dicono sbrigativamente i liberali? Socialismo reale, come affermavano i dirigenti brezneviani, intendendo un socialismo attuato nell’ambito delle concrete possibilità del contesto storico-geografico? Uno stato operaio degenerato che si poteva riportare sulla retta via, come sosteneva Lev Trotsky, una volta eliminata politicamente la casta parassitaria al potere? O infine capitalismo di stato, come credevano anarchici, maoisti, bordighisti e altri comunisti di sinistra?
Sono interrogativi ai quali chi aspira a trascendere l’orizzonte capitalistico non si può sottrarre: sia perché il fallimento dell’esperienza sovietica continuerà ed essere la mazza chiodata dei sostenitori dello status quo, sia perché i processi di burocratizzazione postrivoluzionaria continuano a ripetersi ciclicamente, a vari livelli d’intensità e con diverse connotazioni locali, in ogni esperienza di gestione del potere nelle organizzazioni politiche e statuali insorgenti. Da questo punto di vista la pubblicazione di Urss, un’ambigua utopia di Yurii Colombo offre ai lettori un’utile analisi della storia dell’esperimento sovietico basata su letteratura e fonti poco conosciute nel nostro paese. L’immagine dell’Urss che ne emerge è lontana dalle forzature teoriche funzionali alla battaglia politica; è un’immagine ambigua, spuria, contraddittoria, per certi versi inafferrabile.
L’organismo sociale emerso dalla rivoluzione del 1917 già alla metà degli anni ’20 aveva deprivato gli operai della possibilità di scioperare e d’intraprendere qualsiasi iniziativa autonoma, la democrazia diretta dei soviet non era mai riuscita a decollare per l’immaturità sociale delle peculiari condizioni russe. Dopo il periodo di assestamento staliniano, che si concretizzò in quattro milioni di arresti politici e 800 mila condanne a morte concentrate nel biennio 1937-38, la formazione economico-sociale sovietica, secondo Colombo, prende con Brežnev la forma di un patto sociale: a fronte del monopolio della politica detenuto dalla burocrazia si assicurano alla popolazione piena occupazione, abitazione e prezzi bassi di prodotti alimentari di base, mentre utenze domestiche, sanità, trasporti e strutture ricreative risultavano sostanzialmente gratuiti. A compensazione dell’inefficienza della distribuzione al dettaglio, dovuta agli squilibri tra settori produttivi di beni capitale e beni di consumo, inoltre, era tollerata un’economia parallela fatta di baratti, scambi di prestazioni e traffici di varia entità. All’interno di questa sorta di compromesso neocorporativo, lievitarono a dismisura non solo i privilegi, ma anche i “risparmi” dell’élite. Inoltre, nel momento in cui l’Urss cominciò a venire a contatto con il mercato mondiale capitalistico si aprirono profonde crepe nella sua architettura. Qui, infatti, non operavano meccanismi di ristrutturazione tecnologica e aumento della produttività del lavoro, ma solo compressione salariale per assenza di contrattazione sindacale. Il «vero accidente della storia – commenta dunque Colombo – non fu il crollo di un regime causato da un complesso di fattori contingenti e casuali, ma la sua sopravvivenza per oltre 70 anni malgrado le profondissime contraddizioni interne mai risolte».
Quando infine una parte della burocrazia decise con Gorbačëv di tentare la via dell’autoriforma, le possibilità di riuscita si rivelarono presto insussistenti: la casta al potere era divisa tra chi temeva di perdere il controllo sulla società (i conservatori) e chi aveva sostanzialmente interiorizzato la presunta superiorità del capitalismo (i riformisti); la classe operaia, dopo decenni di abbraccio pattizio con la burocrazia era disorientata, spoliticizzata, abbagliata dalle merci occidentali e oppose una resistenza meramente passiva allo smantellamento dello stato sociale.
Fu così che mentre i dirigenti di partito si facevano concedere crediti in valuta estera per fini speculativi, i giovani comunisti del Komsomol aprirono discoteche e videoclub dove si proiettavano soft-porn e film anticomunisti come la serie Rambo di Sylvester Stallone. I maiali di orwelliana memoria si alzarono definitivamente in piedi e al posto dell’Unione sovietica sorse «un mostro bicefalo, in cui la prima testa è una variante del capitalismo semiperiferico alla Wallerstein e l’altra è un insieme di relazioni neofeudali basate sul capitalismo di Stato, sulla corruzione, sul clientelismo, sul parassitismo del capitale privato».
Se il libro di Yurii Colombo non fosse un saggio teorico, ma un’opera di fiction, entrerebbe a pieno titolo nel genere noir dove la mancanza di eroi senza macchia non significa cinica apologia del disimpegno, ma impietoso affondare del bisturi nei mali del nostro tempo.