Note sul cinema della Jacuzia
di Yurii Colombo – apparso per la prima volta su Alias del maggio 2020
La quarantena nel suo incedere ha portato con sé anche sorprese e strenne. Come, per esempio, per noi, la possibilità di scoprire il cinema della Jacuzia, l’estesissima repubblica della Siberia profonda. Per tutto il periodo di forzato isolamento, la principale casa di produzione della regione, la Sakha Movie (sakhamovie.ru), ha deciso di rendere disponibile in rete gratuitamente il catalogo dei suoi films. Un cinema, quello jacuto, lontano dalle grandi passerelle, senza alle spalle budget significativi e forse ancora senza una propria dimensione definita ma che rappresenta uno spiraglio decisivo per introdursi a un mondo ai più sconosciuto.
Non sorprenderà che il cinema della Jacuzia è riuscito a trovare spazio nella piazza moscovita solo recentemente, nel 2018, quando Тойон кыыл (Il re degli uccelli) ha trionfato alla 40º edizione del Festival del cinema di Mosca. Il lungometraggio narra la storia del vecchio Mikkipar e di sua moglie Oppuos e della loro modesta esistenza in una remota taiga negli anni ’30 dello scorso secolo. Un’esistenza segnata da soffocanti ritmi naturali ma interrotta però improvvisamente dalla presenza di un’aquila. E di uno sciamano che spiegherà loro che l’aquila si aggira da quelle parti perché Mikkipar involontariamente gli aveva distrutto il nido. Ne conseguirà che la coppia, col tempo, imparerà a prendersi cura di quel maestoso uccello. Inno alla natura ed ennesimo omaggio al grande rapace, il film apre una finestra sulla vita e la dimensione spirituale dell’esistenza quotidiana in una terra inospitale.
La Jacuzia, o Sakha in lingua jacuta, è una repubblica autonomia della federazione russa dell’estremo oriente siberiano ed è l’unità amministrativa più grande della Terra. Sui suoi 300 milioni di chilometri quadrati vivono meno di un milione di abitanti e per raggiungerla da Mosca occorrono 8 ore di aereo. La popolazione originaria giunse dalla Mongolia nel XIII secolo e visse a lungo isolata. Solo in epoca sovietica conobbe una forte colonizzazione di famiglie russe determinata dalla scoperta di oro, petrolio e gas. La distanza dalla Russia europea e una pugnace resistenza culturale dei nativi, hanno permesso soprattutto a partire dai primi anni Duemila lo sviluppo di un cinema indipendente (rigidamente in lingua sakha e con solo con sottotitoli in cirillico) lontano dal colonialismo grande russo imposto già dagli anni ’30 da Mosfilm. Il produttore sakha Sardan Savvin sostiene che l’euroecentrismo grande russo è una persistenza in quanto “le persone che vivono nel centro della Russia hanno la strana sensazione che non ci sia nulla oltre gli Urali, non stia accadendo nulla laggiù”, come se si trattasse, nella sfortunata sintesi di Friedrich Engels, di “popoli senza storia”.
A far da apripista al Re degli uccelli era stato due anni prima Костёр на ветру (Falò nel vento) convincente esordio del giovane cineasta Dmitrij Davydov che narra del tentativo di un anziano di un villaggio sperduto di ricostruirsi la vita passa attraverso il difficile rapporto con un ragazzino senza punti di riferimenti e con una madre alcolizzata. Un universo chiuso dove infanzia e autunno dell’esistenza fuoriescono dai canoni culturali occidentali. Il film ha partecipato a moltissimi festival non solo in Russia, riscuotendo grande interesse.
“Il cinema d’autore sakha sta producendo un effetto di traino per tutto il nostro catalogo che è fatto anche di pellicole evasione” sostiene uno dei titolari di Sakhamovie. Il fatto è che sul mercato locale questi films, spesso girati sulle ali dell’entusiasmo più che sulla base di budget significativi, incassano spesso un sacco di soldi al botteghino, riuscendo a volte addirittura di tanto in tanto a rimandare le uscite di Hollywood.
Per il critico cinematografico Egor Belikov, il cinema sakha “è ancora comprensibile, non rientra in una realtà completamente aliena per noi ma allo stesso tempo è così originale da sembrare qualcosa di completamente nuovo, come se il cinema fosse stato reinventato di nuovo”.
Come nel caso dell’onirico Ostrav (Isola, 2015) di Evgenij Pavlov dove il protagonista scampato a un disastro aereo sopravvive come un perfetto Robinson Crouse in una lussureggiante isola disabitata in attesa di poter riabbracciare l’amata. Al suo rientro scoprirà che la ragazza si è sposata con un suo amico ma ciò non gli impedirà di lottare per riconquistarla. Pellicola ingenua e apodittica, è uno dei più grandi successi commerciali del cinema jacuto dove melodramma e realtà sociale producono personaggi per noi con scarso spessore psicologico, ma tuttavia assai vicini ai gusti e agli orizzonti culturali del pubblico locale. Nel 2018, da questo punto di vista, Respublica Z è stato un tentativo di collegare gli stilemi del cinema horror alla realtà delle grande distese siberiane. Qui una pandemia mondiale proveniente dagli Stati Uniti (!) produce masse di zombies sofferenti e voraci di carne umana. Tre sopravvissuti, armi alla mano, cercano disperatamente di attraversare la taiga in cerca di un’incerta salvezza, visto che non sanno cosa sia successo nel resto del mondo. Tra loro Dora (interpretata da Irina Michaylova, attrice di teatro prestatasi alla celluloide), una sorta di minuta Lara Croft orientale, dal grilletto facilissimo. Il film dominato da infinite highway che tagliano immense foreste e da cieli straordinariamente tersi, è la vicenda di un terzetto immune al virus ha perso ogni speranza di salvare l’umanità dopo che anche un giovane scienziato non è riuscito a produrre il vaccino anti-zombie e la lotta è quindi diventata inevitabilmente impietosa. Sarà solo l’arrivo improvviso dell’inverno che congela gli eserciti di morti viventi a salvare i nostri eroi.
Il tema dei rapidi cambi di stagione deve essere importante in quella regione se si ritrova in un altro film horror a bassissimo budget come Б?тэ?ик к?н (Ultimi giorni, 2013) girato da uno degli attori con una telecamera a mano. Ultimi giorni del pianeta passato improvvisamente dall’inverno all’estate senza una qualche apparente ragione in una notte in cui un gruppetto di individui si trovano a muoversi senza meta in un mondo scomparso e senza più rotta morale.
Parlare quindi del cinema yakut come di una sorta di esibizione amatoriale etnografica è quindi sbagliato e fuorviante. Basti pensare a due film con cui concludiamo questa breve rassegna.
Il primo, #taptal (2014) è una commedia adolescenziale che sin dalle prime battute mostra che per quanto gli ingredienti di base siano simili a quelli occidentali (l’amore, l’insicurezza, le gangs, ecc.) l’orizzonte socio-culturale sia completamente diverso e ben più complesso dei quadri piccolo-borghesi di quelli occidentali. Il nostro eroe è un aiuto meccanico, un operaio che si vergogna di essere tale e la nostra “lei”, una blogger in erba con pretese intellettuali. È sullo sfondo dei palazzoni scrostati di epoca brezneviana e di strade dissestate della capitale Yakustsk che il loro amore (platonico) infine trionferà. Tutte le regole del genere sono di fatto sovvertite per garantire un qualche raccordo con la realtà sociale: se si vuole capire qualcosa della gioventù di quelle parti è questo uno dei film che va visto. All’opposto troviamo Покидая благоухающую гавань (Lasciando il porto profumato, 2011) quasi interamente girato a Hong Kong. Qui la giovanissima e dinoccolata Orlandina sfugge al mondo agreste jacuto e lavora come operaia artigiana in una fabbrica di anfore ma il suo vero obiettivo è indagare la notte della metropoli cinese. Sbronze e sesso casuale segnano le sue notti incerte: alla fine il rientro nel mondo del villaggio siberiano resta in bilico tra resa ed eterno ritorno. Da vedere, anche perché doppiato in inglese.