Recensione a La casa del governo di Yurij Slezkine






YURII COLOMBO

La casa del governo di Yurij Slezkine (Feltrenelli, 2018, 1211 pp.) è stato paragonato a grandi opere delle letteratura russa come Guerra e pace di Lev Tolstoj, e a Vita e destino di Vasilij Grossman. Difficile immaginare per La casa del governo però un successo di pubblico e critica simile ai libri citati. Tuttavia si tratta di un’opera ineludibile per chi studia la storia sovietica che avrà sicuramente influenza sul proseguo del dibattito sull’interpretazione della rivoluzione d’Ottobre.

Slezkine ha lavorato su tre piani, o libri, intimamente connessi tra loro. Il primo è quello della saga familiare, ovvero della certosina ricostruzione della biografia di alcuni dirigenti bolscevichi e dei loro congiunti. Il secondo è quello analitico: il movimento bolscevismo secondo l’autore sarebbe stato essenzialmente una setta millenaristica immanentista. E infine il piano della fiction sovietica dell’epoca, che provvede a una tessitura degli altri due piani. Quest’ultimo è il piano più affascinante e originale dell’opera anche perché gran parte di quella narrativa (si pensi ad Andrej Platonov) non è mai stata disponibile in lingue occidentali.

Il cemento dei tre piani di lavoro è rappresentato dalle vicende che si intrecciano nella massiccia Casa del governo, sede e residenza dei membri del governo sovietico negli anni ’30, un’opera architettonica in bilico tra costruttivismo e neoclassicismo, metafora dell’ascesa e caduta della prima generazione di leader bolscevichi. Piani e livelli volti a sostenere la tesi, non certo nuova, che l’ascesa dello stalinismo fu l’inevitabile epilogo dalla logica stessa del millenarismo bolscevico. Una tesi già sviluppata da Eric Voegelin negli anni ’30 del secolo scorso, popolarizzata da alcuni autori americani durante la guerra fredda e rilanciata recentemente da Emilio Gentile.

L’opera di Slezkine ha provocato un ampio dibattito e anche qualche irritazione tra gli storici. Non è posta in discussione la serietà del lavoro sulle fonti, sempre apprezzabile in un’opera storica. Anzi vengono alla luce grazie a tale minuzioso scavo, passaggi della storia del bolscevismo inediti (per esempio il rapporto personale tra Stalin e Osinskij) o dettagliate informazioni sulla vita domestica dei protagonisti. E non è neppure censurabile la scelta del metodo comparativo della ricerca che al contrario rende affascinante, e in alcuni passaggi vibrante, il racconto di Slezkine. Non rappresenta neppure un problema infine, il suo legittimo, radicale, antibolscevismo.

Ciò che parzialmente inficia la ricerca dello storico russo sono invece le omissioni e alcuni mancanti spunti di riflessione. Alla stessa Sheila Filzpatrick, disponibile a riconoscere gli elementi innovativi del libro, non sfugge il suo carattere monistico e unilaterale: “Posso accettare più o meno un Lenin millenarista, almeno fino all’Ottobre, ma in seguito le responsabilità di governo lo resero più sobrio. Ma nemmeno Slezkine riesce a convincermi che la moglie di Lenin, Nadežda Krupskaja, anch’essa vecchia bolscevica, lo sia mai stata”.

All’estremo opposto è assente completamente il confronto con la bogostroetel’stvo (costruzione di Dio) di Anatolij Lunačarskij e più in generale con la corrente bogdanovista del partito bolscevico, la quale rivendicava apertamente, rimbrottata da Lenin, l’intimo legame tra marxismo e religione. “Il marxismo è la più religiosa di tutte le religioni e il marxista è il più religioso degli uomini” era la tesi di Lunačarskij sviluppata nel 1908 in Socialismo e religione, la quale anticipa secondo Roland Boer, le riflessioni di Ernst Bloch sulla valorizzazione del mito biblico in chiave rivoluzionaria. L’omissione consente a Slezkine di non affrontare anche la complessità del dibattito interno al bolscevismo sul materialismo di Ernst Mach che poneva in due campi irriducibilmente opposti i “costruttori di Dio” e Lenin. Si tratta di un limite messo in rilievo sotto altri aspetti da Sonja Luehrmann e Todd Weir nella loro rassegna su la Casa del governo secondo cui il confronto tra bolscevichi e socialdemocrazia tedesca “avrebbe potuto mettere in luce se il millenarismo bolscevico avesse una scaturigine secolare o fosse il prodotto di un contesto religioso specificatamente russo”.

Paradossalmente Slezkine però, in conclusione, spiega con i caratteri della chiesa russa i motivi per cui il bolscevismo, a differenza del cristianesimo, non avrebbe attecchito per più di una generazione, lasciando così fuori dalla porta la complessa vicenda storica e sociale che condusse a quella che Serge chiamò la “mezzanotte del secolo”. Facendo proprio il canovaccio weberiano, per l’autore la mancata riforma dell’ortodossia condusse il bolscevismo a giocare quel ruolo di modernizzatore e secolarizzatore della società russa che in Europa occidentale era stato svolto dall’ascetismo protestante. Ironicamente, così le inadeguatezze dell’ortodossia non spiegherebbero più il successo del totalitarismo, quanto il suo fallimento.

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