Estratto da Fernand Braudel “Il mondo attuale”, Einaudi, 1963
La Russia, anticamente Moscovia, oggi Urss, costituisce l’altra Europa, sviluppatasi in ritardo, quasi come l’America, ma sullo stesso continente e quindi saldata all’Occidente. Dovremo esaminare le sue origini e il suo antichissimo passato; l’adozione, da parte sua, del marxismo, all’indomani della rivoluzione del 1917; la sua completezza attuale – la sua entelechia, direbbero i filosofi. Si tratterà sempre, beninteso, del medesimo personaggio, il cui prestigio deriva dal fatto di essere il paese della grande esperienza rivoluzionaria, ma anche quello della realizzazione a tempo di record della propria rivoluzione industriale. Scarsamente industrializzato nel 1917, nel 1962 tiene testa ai potenti Stati Uniti. Nel suo esempio è riposta la speranza dei paesi sottosviluppati di oggi: potranno essi superare di colpo la fase dell’industrializzazione? Il socialismo ne è stato o no la condizione determinante?
Capitolo primo DALLE ORIGINI ALLA RIVOLUZIONE D’OTTOBRE
È molto difficile riassumere in poche pagine, in modo ragionevole, un passato cosf lungo e denso di violente catastrofi, di cui, nonostante tutto, l’Europa occidentale non offre l’equivalente. La prima difficoltà è costituita dall’immensità della scena geografica su cui si svolge e da cui si ripercuote questa storia varia e complessa. Seconda difficoltà: i popoli slavi si insediarono tardi su quei territori e non vi si trovarono soli. La culla degli Slavi, antenati dei Russi, si trovava sui Carpazi e nella Piccola Polonia attuale ( la Polonia è il solo paese di popolazione slava abbastanza pura). Il personaggio di cui parliamo tardò dunque a entrare sulla scena e ad occuparla completamente.
La Russia di Kiev. La sovrabbondanza dello spazio, rimasto a lungo quasi disabitato, ricorda la nuda immensità del continente americano. L’uomo in quello spazio si perde: grandi pianure, fiumi lunghissimi, distanze inumane, interminabili passaggi da fiume a fiume, regioni di dimensioni colossali. Siamo già davanti alla smisurata grandezza dell’Asia. A nord di una linea immaginaria che congiunga Kiev a Perm, si trovano le grandi foreste, che continuano quelle dell’Europa settentrionale e le congiungono all’interminabile tajga siberiana, sull’altro versante degli Urali, antica catena orientata in direzione nord-sud, che, come i Vosgi, forma un debole ostacolo, ma costituisce il confine convenzionale dell’Europa, cioè il confine tra Russia europea e Russia asiatica. A sud della stessa linea immaginaria, corre la distesa scoperta delle steppe (la parola è d’origine russa): la steppa nera dal suolo fertile di Cernozem, la grigia steppa delle erbe alte in cui, nella stagione secca, un cavaliere col suo cavallo può sparire quasi per intero; la steppa bianca, con le sue efflorescenze saline sulle rive del Caspio. Il territorio russo è formato dall’insieme di quei vasti e bassi paesi compresi tra il mar Bianco, l’oceano Artico, e il Baltico da un lato; il Caspio e il mar Nero dall’altro. Baltico e mar Nero rappresentano le zone chiave, i piu animati centri di attrazione. La vocazione della Russia è sempre stata quella di passare dall’uno all’altro, di congiungerli, di aprire sull’uno e sull’altro le finestre e le porte che la collegano all’Occidente e al Mediterraneo, cioè alla vita europea. La vocazione della Russia è anche quella di sfociare sull’Asia inquieta delle steppe, l’Asia dei nomadi, di cui abbiamo ricordato i conflitti, le incursioni, i pericoli di invasione sino al secolo XVI. Tutto va bene quando i nomadi venuti dall’est dànno vittoriosamente la scalata ali’ altopiano iranico e si dirigono verso Bagdad; vuol dire che la tempesta si è allontanata dal territorio russo. Ma poiché sotto il sole del Vicino Oriente non c’è spazio per tutti, molti asiatici, in mancanza di meglio, si spinsero spesso sino alle steppe russe, dal Volga al Don, al Dnepr, al Dnestr e oltre. Da tali invasioni, la Moscovia fu investita piu volte. La terra russa subisce in tal modo il suo destino di enorme zona di frontiera, di scudo dell’Europa contro l’Asia, i cui colpi violenti essa fu destinata a smorzare a spese proprie.
La Russia esiste solo dal momento in cui arriva a bloccare per intero l’istmo europeo, dal Baltico ai mari meridionali, controllando le vie di collegamento. Per questa e altre ragioni non si può parlare di Russia prima del principato di Kiev ( secoli IX-XIII). Gli Slavi orientali, di origine ariana, come tutti gli Slavi, dopo lunghe traversie, spinsero le loro tribu e i loro clan fino alle città, alle campagne e alle pianure del Dnepr. Il movimento, cominciato all’inizio dell’era cristiana, si concluse nel secolo vn. In quel periodo questi Slavi erano giunti, verso est, ai confini di popoli insediati da lungo tempo: i Finni provenienti dagli Urali; gli Sciti, Sarmati e Bulgari della Kama, originari dell’Asia centrale e i cui discendenti sono legioni; i Goti della Vistola e del Niemen, gli Alani e i Cazari ( questi ultimi si convertirono piu tardi all’ebraismo), provenienti dalle rive del Caspio e del Don. La prima Russia, formata da una mescolanza di popoli europei e asiatici, fu quella dei «piccoli russi». La fusione dei popoli, la prosperità delle città e tutto il fervore di vita tra Novgorod la Grande a nord e Kiev a sud, non si spiegherebbero, senza la presenza di una via di prospero commercio tra il Baltico e il mar Nero, con le sue diramazioni da un lato fino a Bisanzio – la ricchissima città le cui luci abbagliarono i kieviani, ispirando loro folli spedizioni – e dall’altro fino a Baghdad – che in quell’epoca cominciava a raggiungere il suo pieno splendore. Per queste strade circolavano da nord verso sud l’ambra, le pellicce, la cera, gli schiavi, e da sud verso nord le stoffe, le sete preziose e le monete d’oro. Queste ultime, che gli archeologi ritrovarono lungo tutto il percorso, ci dànno un’idea retrospettiva della sua prosperità. Fu proprio quella prosperità a dar vita a città, sproporzionate rispetto alle campagne circostanti, allora praticamente «inesistenti». Da Novgorod a Kiev, tutta una fila di città vicine fra loro si scambiavano merci, conflitti e principi. La Russia di Kiev fu costretta a difendersi incessantemente, specie verso sud. D’altra parte il nord scandinavo non mancò di rifornirla dei mercenari necessari – oggi servi, domani padroni, battaglieri sempre. Questi « Normanni» o meglio « Vareghi », provenienti da una Svezia ancora contadina e primitiva, talora dalla Danimarca, si lasciavano volentieri attrarre dalla via del Dnepr che collegava tra loro le città russe, e conduceva « verso i Greci», attraverso quel brillante paese cui essi diedero il caratteristico appellativo di Gardarikki, regno delle città. Un gruppo di quegli avventurieri fondò la dinastia dei Rjurik, di oscure origini, che vediamo imporsi, verso il secolo X, a Kiev e a tutte le altre città, costituendo quello che gli storici hanno chiamato principato o Russia di Kiev, o dinastia dei Rjurikidi. Lo splendore di quella prima Russia si spiega in un contesto di storia generale. Infatti, chiuso per lungo tempo il Mediterraneo occidentale dalla conquista islamica dei secoli vn e vm, gli si sostitui la via continentale tra Novgorod e Kiev come via di collegamento tra i paesi del nord e le ricche contrade del sud. Il giorno in cui, fra il secolo XI e il XII, con la fine della supremazia musulmana sul mare, il Mediterraneo fu nuovamente aperto ai traffici, decrebbe l’interesse di questa interminabile via, fatta di strade fluviali e carovaniere, fino a scomparire definitivamente con l’occupazione latina di Costantinopoli nel 1204. La via marittima uccise quella continentale. Già prima di quella data i principi di Kiev avevano incon tra to crescenti diffìcol tà a difendere le loro fronti ere e ad assicurare la continuità del percorso dal Baltico al mar Nero. Secondo un antico proverbio «se è per mangiare e bere, tutti vanno a Kiev, ma al momento di difenderla tutti spariscono». Fu proprio cosi. L’incessante pressione dei nomadi del Sud lanciava senza tregua sulle terre e le città del principato nugoli di cavalieri: prima i Peceneghi, poi i Torchi, piu tardi i Kipchak e i Cumani, che le cronache russe chiamano Polovcy. Una parte delle popolazioni kieviane, fin dal secolo XI, si era spostata (meglio sarebbe dire fuggita) verso nordest, dove andò a colonizzare le radure aperte dai contadini nelle immense foreste in direzione di Rostov ( Rostov Jaroslavskij, piccola città del nord, da non confondere con l’odierna Rostov sul Don). In quella regione si costitui la nuova Russia, con la fusione degli Slavi e dei Finni – popolazioni mongole che formano la prima base del popolamento – dando origine al cosiddetto gruppo dei « grandi russi». La nuova Russia, barbarica ma solida, era già nata prima che si spegnessero le ultime luci di Kiev. In realtà, l’invasione mongola che travolse Kiev, il 6 dicembre 1241, rovesciava uno stato ormai in disfacimento. Cinque anni dopo un viaggiatore che passò per quei luoghi, sul posto dove sorgeva la grande Kiev non trovò che duecento misere case. 3. Città russe e città occidentali. Lo splendore della Russia di Kiev poggiò per secoli sulla prosperità delle sue città. Allora non vi era traccia alcuna di squilibrio tra Europa orientale e occidentale. Studiosi di storia comparata hanno tuttavia osservato che la rassomiglianza delle grandi città kieviane con le città che allora andavano sorgendo in Occidente non è totale. Le prime infatti, mancarono di tutta quella coorte di cittadine, di paesi e villaggi, che circondano le città dell’Europa occidentale, estendendone le funzioni urbane a un vasto territorio. Inoltre, a differenza delle città occidentali, le prime città russe non erano nettamente separate dalle campagne circostanti. I signori delle campagne vicine a Novgorod la Grande partecipavano infatti alla sua assemblea – il veče – le cui decisioni erano sovrane nella città e nel vasto retroterra da essa dipendente. Essi ne erano padroni alla stregua del Consiglio (Soviet) dell’aristocrazia mercantile, tanto che, per esempio, a Kiev il primo posto spettava ai signori – boiari della druzina – che costituivano la compagnia del principe. Si trattava quindi di città «aperte», simili a quelle dell’antichità – Atene ad esempio, che era aperta agli Eupatridi dell’Attica – e non di unità chiuse su se stesse e sui privilegi dei loro cittadini come nell’Occidente medievale. La religione ortodossa.Convertendosi al cristianesimo ortodosso, la Russia di Kiev ha vincolato per secoli il futuro della Russia. Lungo le strade kieviane non passarono solo le merci, ma anche il verbo degli evangelizzatori. La diffusione generale del cristianesimo nel principato fu dovuta alla politica del principe Vladimiro il Santo – detto anche Vladimiro Bel Sole. Dopo aver alquanto medi tata su una conversione all’ebraismo, egli si lasciò attrarre dal fasto del rituale bizantino, cui fece convertire ufficialmente tutti i suoi sudditi verso l’anno 988, quando il popolo di Kiev fu battezzato in blocco nelle acque del Dniepr. Già da piu di un secolo, però, la nuova religione era andata diffondendosi specie nel sud e nella stessa Kiev, sulla scia del movimento generale suscitato dalla missione decisiva di san Basilio in Kazaria nell’861, dalla conversione dei Moravi nell’862, dei Bulgari nell’864 e dei Serbi nell’879. La conversione russa non fu quindi che un episodio come tanti altri, un’ulteriore prova della eccezionale forza di diffusione dell’antica Chiesa di Bisanzio che, all’indomani della lunga crisi iconoclasta placatasi infine con il concilio di Nicea (787), aveva riacquistato tutta la propria vitalità e si preparava a estendere il.proprio influsso fino al centro dell’Asia. Ci volle tuttavia del tempo prima che la Piccola Russia e poi la Grande Russia venissero pienamente conquistate al cristianesimo. I successi clamorosi sono piu tardi: tra il 1025 e il 1037 fu costruita la cattedrale di Santa Sofia di Kiev; tra il 1045 e il 1052 quella di Santa Sofia di Novgorod e solo nel 1051 fu fondato a Kiev uno dei primi monasteri, quello delle Cripte. Le campagne e le città russe erano infatti attaccate ai loro culti pagani, per sradicare i quali occorse un certo tempo, con risultati non sempre perfetti. Credenze e mentalità precristiane sopravvissero in certi casi fino ai giorni nostri, specie per quanto riguarda il rito del matrimonio, la morte e i guaritori, e vennero influenzando il cristianesimo russo il cui apporto alla liturgia ortodossa, al culto delle icone e la speciale importanza attribuita alle feste pasquali è stato spesso messo in rilievo. Nel secolo X la civiltà e il mondo russi, nel loro insieme, entrarono nell’orbita di Bisanzio. Ciò contribui a differenziare l’Europa orientale da quella occidentale. Varie e contrastanti spiegazioni si sono date delle differenze esistenti fra cattolici e ortodossi. Queste differenze 6ollevano un grosso problema che è necessario innanzitutto – se possibile – di formulare, prima ancora che risolvere. La differenza, a parer nostro, è di origine storica. Il cristianesimo occidentale subf tutta una serie di prove particolari. Per certi aspetti esso è l’erede dell’impero romano: la religione cristiana aveva conquistato l’impero, ma ne risultò a sua volta «imperializzata»; se ne videro i risultati, in Occidente, nel secolo v quando, una volta scomparso l’impero, il cristianesimo ne assunse i compiti e le «strutture mondiali». La Chiesa d’Occidente, ecumenica, è al di sopra delle singole società e stati e si serve della sua lingua – il latino – comune a tutti, come di uno strumento di unità. La Chiesa conservò poi le gerarchie imperiali, la sua struttura centralizzata, la sua vecchia e prestigiosa capitale, Roma. La Chiesa d’Occidente si impegnò inoltre a far fronte a tutti i problemi politici e sociali, numerosi nella prima notte della civiltà occidentale e fu la grande comunità capace di sovvenire a tutti i bisogni dell’anima e del corpo, all’evangelizzazione, all’insegnamento e persino al dissodamento delle nuove terre. La Chiesa di Bisanzio, nel secolo X, si trovava al1 ‘interno di un solido impero, che non le lasciò né i compi ti né i pericoli dell’espansione temporale, ma la tenne soggetta e limitata ai suoi compiti spirituali. La Chiesa ortodossa che si trapiantò in Russia, era meno distaccata dalla massa dei fedeli di quanto lo fosse la Chiesa in Occidente e quasi indifferente ai problemi politici. La Chiesa ortodossa fu pronta a inserirsi nei quadri nazionali che le si presentarono, meno curante di fondare una organizzazione e una gerarchia che di diffondere la tradizione spirituale trasmessale dal pensiero greco del secolo X. Quanto poi alla lingua liturgica, la Chiesa greca conservò gelosamente per sé il greco «considerandolo come una lingua di élite, di cui i barbari non erano degni». La lingua liturgica, nei paesi slavi, fu dunque lo slavone, cioè la lingua in cui i santi Cirillo e Metodio (tra 1858 e 1862) avevano tradotto i libri sacri ad uso dei vari popoli slavi di cui avevano intrapreso l’evangelizzazione. Dovettero trascrivere lo slavo dei dintorni di Tessalonica e, per questo scopo, inventare persino un alfabeto. Per questa ragione lo slavone liturgico, prima lingua scritta nella storia culturale dei popoli slavi, è tanto importante. Numerosi particolari stanno a denotare la differenza della tradizione spirituale tra le due Chiese. La parola «verità», ad esempio, in greco e piu ancora in slavone designa « ciò che è eterno, costante, realmente esistente al di fuori del mondo creato», come può comprenderlo la nostra ragione. La parola pravda unisce quindi in sé i due significati di verità e giustizia e si contrappone alla parola istina, la verità terrena. «La forma indoeuropea var ha dato luogo, nelle lingue slave, alla parola vera, che significa fede» e non verità. Per il latino, invece, verità, nel suo significato giuridico, filosofico o scientifico, designa sempre «una certezza, una realtà per la ragione». Cosi pure la parola sacramento, che in Occidente chiama in causa la gerarchia religiosa, sola in grado di conferirgli il carattere sacro, in Oriente significa anzitutto mistero,« ciò che oltrepassa i nostri sensi e viene dall’alto», direttamente da Dio. Vi sono particolari della liturgia, che denunciano profonde differenze. La Settimana Santa in Occidente è il tempo del lutto, della passione, della sofferenza e della morte di Cristo-uomo. In Oriente invece è un’occasione di allegrezza, sottolineata dai canti che glorificano la resurrezione di Cristo-Dio. I crocifissi russi rappresentano un Cristo tranquillo nella morte, non il Salvatore sofieren te dell’Occidente. Tutto deriva forse dal fatto che in Occidente il cristianesimo dovette affrontare fin dalle origini tutta una serie di problemi umani, collettivi, comunitari e persino giuridici, mentre in Oriente il pensiero religioso rimase piu circoscritto, piu individuale, facilmente mistico, esclusivamente spirituale. Taluni hanno visto in questo fatto l’origine della diversità, essenziale sul piano delle civiltà, che Aleksej Chomjakov osservava tra« ortodossi mistici e occidentali razionalisti». Dunque il cristianesimo occidentale sarebbe in parte responsabile di quello spirito razionalista, cosi tipicamente europeo, che doveva generargli ontro il libero pensiero, contro il quale si difese, ma a cui fini poi per adattarsi? L’ortodossia russa non affrontò battaglie tanto pericolose se non in tempi recenti. Una scelta tuttavia essa dovette compierla, nel secolo XVII, tra la religione ufficiale epurata (liberata anche dall’abitudine, contraria alla Chiesa greca, di fare il segno della croce con due dita della destra) e una religione popolare, formalista, moraleggiante, presto sordamente rivoluzionaria. Ma i riformatori popolari finirono scomunicati, e fu lo scisma, il raskol. La lotta contro i raskol’ niki fu da quel momento incessante, ma si trattava ancora di conflitti interni. Il conflitto esterno, contro il libero pensiero, data solo dall’ultimo secolo dello zarismo. All’indomani della rivoluzione del 1917, la Chiesa ortodossa lottò, a dire il vero, per la sua stessa esistenza, per sopravvivere, con l’azione sotterranea e una politica di compromesso, ma non pare aver tratto dalla dura battaglia una qualsiasi possibilità di rinnovamento, né la volontà di impegnarsi sulla nuova via, sorella del socialismo, che il cattolicesimo del secolo XX ha deliberatamente scelto da una cinquantina d’anni. La Grande Russia. La seconda Russia – la Russia delle foreste – poté considerarsi formata solo il giorno in cui a sua volta, riuscì a bloccare l’istmo russo, quando Ivan il Terribile (o meglio Groznyj, il Temibile, 1530-84) riusci a impadronirsi di Kazan’ (1551), poi di Astrachan’ (1556) e a controllare la Volga, dalle sorgenti al Caspio. La duplice vittoria di Ivan fu dovuta all’impiego di cannoni e archibugi; di fronte alla polvere da sparo, gli invasori asiatici, che con i loro cavalli erano «penetrati nel fianco dell’Occidente» dovettero infine retrocedere. Il Caspio che I van raggiunse nel corso della sua offensiva verso sud, si trovava sulla via della Persia e delle Indie. Quanto al mar Nero, conquistato e gelosamente difeso dai Turchi fin dal secolo XV, per i Russi non era ancora possibile raggiungerlo. Si affermò cosi e trionfò una nuova Russia, formatasi lentamente sotto un’altra latitudine e in condizioni difficili ben diverse da quelle – propizie – che avevano presieduto alla nascita della Russia di Kiev. La sorte le riservò anzitutto la povertà, il servaggio e il frazionamento feudale. Tutta la parte meridionale del territorio russo – le steppe – era già stato occupato, prima della caduta di Kiev nel 1241, dai Mongoli, che i Russi chiamarono Tatari. In seguito, i Mongoli edificarono un grande stato indipendente, che, dalle steppe, estese il suo influsso sulle città e sugli stati russi del nord che riconobbero la sua sovranità. Questo stato, il Khanato dell’Orda d’Oro, ebbe la sua capitale a Saraj, sul basso Volga. Esso sorse sotto gli auspici di un lungo periodo di prosperità, che durò fino a quando rimase aperta e sicura la «via dei mongoli», percorsa anche dai mercanti italiani – specie genovesi e veneziani – che si recavano in India e in Cina, all’incirca il 1340. Poi la strada fu interrotta e l’Orda d’Oro sopravvisse nel sud, perdendo a poco a poco il nord delle foreste. Frattanto nel nord si era andato sviluppando, tra una miriade di feudi e tra oscure lotte, il principato di Mosca, fondato nel secolo XIII, che andò poco a poco «assorbendo» la terra russa (come i Cape tingi quella francese a partire dall’Ile-de-France) e riuscì a liberarsi dalla tutela tatara (1480). Al termine di tale movimento di emancipazione, lo zar di Mosca si sostituf al khan dell’Orda d’Oro, i cui resti – soprattutto Tatari di Crimea, stabilitisi tra la Volga e il mar Nero – sopravvissero fino al secolo XVIII grazie all’appoggio dei Turchi Ottomani, di cui furono piu o meno docili vassalli. Ci vollero comunque tre secoli perché la situazione si rovesciasse, ma durante tutto quel tempo i rapporti tra Russi e Tatari non avevano avuto solo carattere bellicoso – anche se non mancarono i conflitti – bensì piuttosto pacifico, con scambi e a volte atti di reciproco aiuto. In generale, i sovrani dell’Orda d’Oro favorirono e appoggiarono lo sviluppo di Mosca; convertitisi tardi e male all’islamismo, essi furono di solito tolleranti e permisero ai popoli loro soggetti di conservare statuti e religione, tanto che a Saraj c’era una chiesa ortodossa. Tra padroni e tributari furono d’altronde numerosi i matrimoni, e si poté dire che in Moscovia esisteva una aristocrazia «semi-orientale». Comunque, quando nel secolo XV il regresso delle forze tatare era ormai evidente, molti musulmani si trasferirono negli stati russi, convertendosi al cristianesimo ed entrando al servizio dei principi, non senza suscitare l’invidia degli autoctoni. Molte grandi famiglie russe, i Godunov, i Saburov, sono di origine tatata. Per lungo tempo i Mongoli avevano imposto il loro prestigio ai principi moscoviti. La loro civiltà era molto piu raffinata di quella russa, il loro stato meglio organizzato, tanto da essere preso a modello, e la loro economia monetaria non aveva equivalente nel nord. La lingua russa attuale conserva ancora un certo numero di parole caratteristiche, di origine mongola: kazna, il fisco; tamoznja, la dogana; jam, la stazione di posta; den’ gi, il denaro; kaznacej, il tesoriere e cosi via. La civiltà superiore dell’Orda d’Oro trasmise un certo carattere asiatico agli usi e costumi della Moscovia. In realtà, questa si era comportata come una popolazione barbarica, illuminata e soggiogata da una civiltà superiore. Questa convivenza ricorda da vicino – anche se con conflitti meno forti – i rapporti tra la Spagna cristiana e la brillante Spagna musulmana. Va notato che lo zar di Mosca prese il sopravvento sul khan musulmano verso il 1480, nel momento stesso in cui la reconquista spagnola andava avvicinandosi al suo ultimo atto, la presa di Granada del 1492. La vittoria di Mosca fu preparata nel corso di innumerevoli e oscure lotte con i principati vicini, e si delineò chiaramente solo con il principato di Ivan III (1462-1505), cui certi storici russi attribuivano una volta importanza superiore a quella di Pietro il Grande. Poco dopo la sua ascesa al trono, nel 1469, Ivan III sposò Sofia, erede dei Paleologhi, gli ultimi imperatori di Bisanzio. Cosi, all’indomani della caduta di Costantinopoli nelle mani dei Turchi ( 1453 ), Mosca diventava la terza Roma, per «dominare e salvare il mondo». Tuttavia, quello che a lunga scadenza fu un enorme successo di prestigio (il titolo di zar, probabilmente deformazione di Caesar, fu assunto dal principe ereditario di Mosca solo nel 1492), contò meno delle vittorie riportate sui Lituani, sull’Orda d’Oro (fine del vassallaggio, nel 1480) e sulla grandi città mercantile di Novgorod. La sottomissione di Novgorod richiese una lunga e drammatica lotta. Nel 1475, guerra fredda e ingresso pacifico nella città; nel 1477-78, Ivan fece sequestrare la campana del vece; nel 1480, inviò in esilio un centinaio di famiglie nobili; nel 1487, settemila abitanti di Novgorod dovettero abbandonare la città e fu la fine del Gospodin Velikij Novgorod, monsignor Novgorod il Grande. Come l’idea della terza Roma e il nuovo titolo di zar, anche l’arrivo nella capitale di artisti italiani fu un segno dell’ascesa di Mosca. Giunsero allora il bolognese Ridolfo Fioravanti, detto Aristotele, Marco Ruffia e Pietro Solari, costruttori di palazzi e di chiese: «Il kremlino assunse allora la sua linea attuale» e fu italiano anche il costruttore di cannoni che dotò l’esercito di Ivan III di una solida artiglieria, Paolo De Bosis. Quasi un secolo prima di Ivan IV il Terribile, e delle sue decisive vittorie di Kazan’ e Astrachan’, la potenza moscovita aveva già mosso i primi passi e ripreso i contatti con l’Occidente. Conquiste e innovazioni richiesero un enorme sforzo da parte dello stato. Un ideologo del tempo di Ivan IV il Terribile, Ivan Peresvetov, elaborò la teoria politica del terrore. Si sa anche che l’ opricnina, il sistema poliziesco instaurato da Ivan il Terribile, gli permise di « schiacciare l’opposizione dei principi e dei boiari e di rafforzare la centralizzazione dello stato russo».La Russia si orientò sempre piu verso l’Europa. È questo il fatto fondamentale della sua storia durante i secoli della modernizzazione, fino al 1917 e oltre. Grazie a tale orientamento, tenacemente voluto e perseguito, la Russia si impadroni delle tecniche moderne in via di rapido perfezionamento. L’era industriale le permise di prendersi la rivincita sull’Asia, che l’aveva minacciata per secoli, e in seguito sull’Europa stessa. Della parte avuta dall’Asia nello sviluppo della Russia parlarono, tra gli storici, i fratelli Kulischer. Secondo loro, i popoli dell’Asia centrale hanno subito, nel corso dei secoli, lente oscillazioni che li sospinsero ora verso l’Europa e il Mediterraneo, ora verso l’Estremo Oriente e la Cina. In tali condizioni, il destino della Russia sarebbe stato parzialmente determinato dal grande movimento che vide rifluire i nomadi verso l’Asia e la Cina, a partire dal secolo xv, con il conseguente allentamento della pressione asiatica sulla Russia meridionale. Cosi, l’Islam dei Tatari avrebbe perduto parte delle proprie forze, distratte dall’avventura nell’Estremo Oriente. Quando poi, verso il secolo XVIII, la situazione si rovesciò nuovamente, questa volta contro l’Europa, era ormai troppo tardi, e l’avanzata dei popoli nomadi, Chirghisi e Bakiri, provocata a sua volta dall’espansione cinese dei secoli XVII e XVIII, fu arrestata dalla diga solidissima che neppure la rivolta semiasiatica di Pugacev nel 1773-74 riusci piu ad abbattere. Indubbiamente, la tesi che abbiamo qui riassunto è troppo semplicistica e richiede qualche correzione. Se la pressione asiatica si attenuò, ciò fu anche dovuto alla superiorità tecnica che la Russia aveva acquisito a contatto con l’Occidente e che cominciava a dare i suoi frutti, nonché allo sviluppo dell’economia russa, frutto, se non altro, dei contatti con il commercio europeo sempre piu attivo nel settore del Baltico. Nulla di piu significativo, in ogni modo, della temporanea occupazione di Narva sul Baltico, da parte dei Russi, nel secolo XVI. E anche se la porta aperta si richiuse quasi subito, la Russia si sarebbe presto presa la rivincita. Il dialogo tra Moscovia e Occidente, iniziato sotto I van III, andò intensificandosi. La storia addita in un viaggiatore tedesco – il barone di Herberstein — lo «scopritore» della Moscovia (1517), come Cristoforo Colombo lo è dell’America. Comunque, mercanti e avventurieri d’ogni risma, consiglieri e progettisti prezzolati, architetti e pittori raggiunsero in numero sempre maggiore quest’altro «Nuovo mondo», molto prima che a Mosca, nel sobborgo della Sloboda, Pietro il Grande, bambino, avesse modo di legarsi di amicizia con gli stranieri di cui avrebbe fatto i propri consiglieri. Fin dal 1571, il duca d’Alba, allora governatore dei Paesi Bassi spagnoli, segnalava alla Dieta tedesca il pericolo costituito per tutta la cristianità dall’attivo contrabbando di armi in direzione della Moscovia, sua potenziale avversaria. Una ventina d’anni prima, nel 1553, l’inglese Chancellor aveva raggiunto con una delle sue navi (l’unica superstite del viaggio) San Nicola d’Arcangelo, di dove la compagnia di Moscovia, fondata da mercanti londinesi, avrebbe per alcuni anni diretto i propri traffici attraverso quell’immenso paese, fino alla Persia. Il riavvicinamento, iniziato già molto tempo prima, fu affrettato dall’opera audace, impaziente e brutale di Pietro il Grande (1689-1725), e dal glorioso, lungo regno di Caterina II, la Grande Caterina (762-96). In quel periodo, le frontiere della Russia moderna verso l’Europa subirono grandi trasformazioni. Infatti, nel corso del secolo XVIII, la Russia si sforzò continuamente di controllare ed estendere il proprio territorio. Il sistema dei collegamenti con l’Europa fece pernio su San Pietroburgo (oggi Leningrado), la nuova capitale, costruita sulla Neva a partire dal 1703, il cui commercio coi vascelli inglesi e olandesi si sviluppò rapidamente. La Russia si andava europeizzando sempre piu, nel corso di una trasformazione cui collaborarono molti popoli vicini, primi tra i quali i Baltici e i Tedeschi. La conquista definitiva del sud (tentata e fallita da Pietro il Grande) e l’insediamento in Crimea, nel 1792, furono compiuti in una regione relativamente spopolata. È noto l’episodio dei villaggi, scenografie smontabili, che Potemkin fece spostare precedendo di volta in volta le tappe del famoso viaggio di Caterina Il. Da quel lato, il vero e proprio còllegamento col mar Nero tarderà ancora a stabilirsi e non lo sarà veramente che all’inizio dell’Ottocento con lo sviluppo di Odessa ad opera del duca di Richelieu. Per la prima volta nel 1803 il grano ucraino arrivò nei porti del Mediterraneo occidentale, seminando il panico tra i proprietari terrieri italiani e piu tardi tra i francesi. Dunque nei singoli particolari come nel quadro generale delle sue molteplici imprese, la storia russa dei secoli xvm e XIX fu quella di una gigantesca «acculturazione» con le sue illusioni, i suoi errori, le sue bizzarrie, i suoi snobismi, ma anche con i suoi risultati positivi. «Grattate il russo e ritroverete il moscovita» dice un proverbio venuto forse dalla Russia, che fece fortuna in Occidente. Ma perché il moscovita non dovrebbe restare tale, con i suoi gusti, la sua originalità, le sue reticenze? Vicino a Mosca possiamo ancor oggi visitare la residenza – conservata e curata come un museo – che il principe Seremet’ ev si fece costruire nel secolo XVIII, a Ostankino, dai suoi servi artigiani, nel piu puro stile neoclassico. Al visitatore sorpreso della freschezza delle pitture interne, delle dorature, della decorazione, dei soffitti a trompe le ɶil , spesso solo appena ritoccati, viene spiegato che tutta la costruzione non è in muratura, come lo spessore dei muri indurrebbe a pensare, ma in legno, materiale refrattario all’umidità. Diceva il principe, non a torto, che nulla poteva uguagliare la comodità delle case russe in legno, cui egli era abituato. Utilizzò dunque il legno, facendolo rivestire alla francese. È un po’ il simbolo di tutto il Settecento russo, che fece appello a innumerevoli occidentali per costruire tutto quanto, anche l’industria – in proporzione ai tempi, beninteso. Un nugolo di ingegneri, architetti, pittori, artigiani, musicisti, maestri cantori e governanti si abbatté su un paese avido di apprendere e deciso a sopportare tutto per raggiungere lo scopo prefisso. Gli edifici di San Pietroburgo, dove, piccolo particolare significativo, si conserva, ancora intatta, la biblioteca di Voltaire e piu ancora l’incredibile massa di corrispondenza e di pubblicazioni in lingua francese ammucchiate nei pubblici archivi, sono altrettante prove del grande cimento cui l’intelligencija russa si sottopose con entusiasmo in quel periodo. In questo fermento della cultura russa, un posto privilegiato spetta alla Francia, dove del resto, per contraccolpo, ci fu una sorta di «miraggio russo». L’autocrate Caterina vi poté passare per liberale, avendo fatto rappresentare in Russia Le Mariage de Figaro prima che la commedia di Beaumarchais ottenesse l’autorizzazione a essere messa in scena a Versailles da Luigi XVI. Ma questo miraggio non deve continuare a trarci in inganno; infatti il governo di Caterina II fu socialmente retrogrado: esso consolidò il potere della nobiltà e aggravò il servaggio. Solo una cultura aristocratica guardò con compiacimento verso Versailles e Parigi. Ben presto però dal suo seno uscirono quelle idee rivoluzionarie che dovevano conquistare gli studenti e gli intellettuali, che seguirono con invidia gli avvenimenti destinati a sconvolgere o per lo meno a scuotere la vecchia Europa. Ma la Rivoluzione francese (o almeno l’impero napoleonico, che ne costitui il prolungamento) falli proprio davanti al colosso russo. Una realtà, questa, degna di riflessione. Nel corso di tutta la storia della Russia moderna, la rivoluzione ribolle in profondità, sullo sfondo, non senza affiorare talvolta in superficie, dal secolo XVI fino all’esplosione dell’ottobre 1917. Dopo lo splendore della Russia di Kiev, nel cui seno si intuiscono però torbidi e tensioni sociali, lo sterminato paese russo conobbe un medioevo in ritardo. Il feudalesimo vi mise radici nello stesso periodo in cui andava scomparendo in Occidente. L’europeizzazione, dal secolo XVI al XX, si andò intensificando, ma toccò soltanto una piccola parte della popolazione, pochi grandi signori, proprietari, intellettuali, uomini politici. Quel che è peggio, lo sviluppo del commercio con l’Occidente, in Russia come nell’Europa centrale, ebbe l’effetto di trasformare i signori in produttori di grano e commercianti; il «secondo servaggio», dall’Elba alla Volga, ne fu la conseguenza evidente. Le libertà contadine persero ogni contenuto e ai servi fu tolto persino il diritto, di cui, tranne quando erano in debito, avevano sempre goduto, di cambiare padrone ogni anno a San Giorgio. L’ukaze di Ivan IV (1581) proibì ogni nuovo cambiamento. Contemporaneamente aumentò, a danno dei contadini, il peso delle corvées e dei censi. Restava loro la possibilità di fuggire, come fecero, verso la Siberia o verso i grandi fiumi del sud, o di raggiungere i gruppi di fuorilegge, i cosacchi, alla frontiera. La regione di Mosca perse cosi metà dei suoi contadini, fuggiti per amore dell’avventura e della libertà. Ma non appena il governo stabili il proprio controllo diretto o quello di un donatario in quelle lontane regioni, la libertà acquisita di fatto si trovò giuridicamente contestata. È l’eterna storia delle libertà russe, perennemente conquistate e riperdute: il signore aveva sempre il diritto di riacciuffare un fuggiasco, e il codice del 1649 aboli persino il diritto di prescrizione. Naturalmente scoppiarono vaste, immense, paurose rivolte: nel 1669, 200 mila ribelli – cosacchi, contadini, indigeni asiatici – presero Astrachan’, Saratov, Samara; erano padroni della regione della bassa Volga e facevano strage di proprietari e borghesi. Il loro capo Sten’ka Razin fu preso solo nel 1671 e fu squartato sulla odierna piazza Rossa a Mosca. Un secolo dopo, nelle stesse regioni, larivolta di Pugacev ebbe un successo iniziale altrettanto grande. Cosacchi del Don e degli Urali, Baskiri e Chirghisi, servi delle grandi proprietà, operai servi delle grandi fonderie di ferro e di rame degli Urali si unirono alla rivolta, alla pugacevina, che si estese fino a Niznij-Novgorod e, lungo il suo percorso, fece strage di proprietari, promettendo a tutti terra e libertà. Kazan’ cadde, ma i ribelli fecero l’errore di non marciare immediatamente su Mosca. Quando Pugacev fu preso e decapitato, nel 1775, tutto parve rientrare nell’ordine. Sono fatti arcinoti che la storiografia sovietica ha messo bene in luce e non senza ragione. Più il tempo passava e piu si aggravava la situazione dei contadini russi. Contemporaneamente al secondo servaggio, sorse una seconda aristocrazia. Il boiaro dei tempi di Ivan il Terribile non era già piu il boiaro della Russia di Kiev, simile al feudatario occidentale, padrone della sua terra. I van aveva saputo stroncare sistematicamente l’indipendenza dei nobili, li aveva fatti uccidere a migliaia e confiscato le loro terre per assegnarle ai suoi fedeli, gli opricniki: nobili di servizio, che detenevano le terre, i «benefici», diremmo noi, solo a titolo vitalizio. In tali condizioni, si giunse alla grande riforma« retrograda» di Pietro il Grande, la legge del maggiorascato del 1714, che riconobbe a quei nobili di servizio la proprietà pura e semplice, per loro e i loro eredi, dei benefici che detenevano. Fu l’atto di nascita di una seconda aristocrazia, confermata nei suoi privilegi e nei suoi ranghi fissati una volta per sempre dall’etichetta. Mencikov, il favorito di Pietro il Grande, ne ricevette in dono centomila servi… Il duplice volto della Russia appare pienamente nella contraddizione di fondo tra la modernità dei suoi rapporti con l’Europa e i sistemi medievali all’interno. Da quel momento un patto effettivo legò lo zarismo alla nobiltà che lo circondava e lo serviva, sempre timorosa e sottomessa di fronte ai capricci del padrone. Ne risenti la situazione contadina, impigliata in una rete di difficoltà insolubili, cui neppure la liberazione in massa di servi nel 1858, nel 1861 e nel 1864 poté ovviare. I vincoli collettivi del mir, il villaggio, sopravvissero a metà. Le terre prese ai signori potevano essere riscattate e inoltre i signori continuarono a conservare una parte dei loro latifondi. La questione fu risolta per un momento nel 1917, con la piu grande esplosione agraria della storia russa, che costituisce la causa profonda ed efficace della rivoluzione. Ma fu soltanto un momento, poiché subito dopo iniziò la collettivizzazione. Il contadino russo non ha dunque goduto a lungo del pieno diritto di proprietà. L’esplosiva situazione rurale alimentò, attraverso tutta la vita russa, una tensione rivoluzionaria, che spiega l’immensa e immediata risonanza della Rivoluzione francese del 1789, commentata giorno per giorno su tutte le gazzette a Pietroburgo, a Mosca come a Tobolsk in Siberia e seguita con passione sin dall’inizio negli ambienti della nobiltà liberale, della borghesia commerciale, degli intellettuali e dei pubblicisti, spesso di origini non nobili. È interessante a questo proposito il volumetto di Michel Strange, La Révolution Française et la société russe, pubblicato in francese a Mosca nel 1960. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo, le notizie delle sommosse francesi e della grande paura « toccavano da vicino i piu scottanti problemi del regime dell’autocrazia e del servaggio» ecostituivano la realizzazione di quei sentimenti che in Russia era possibile leggere, secondo l’espressione di un contemporaneo, «sulla fronte di ogni contadino». Con l’industrializzazione, iniziata dalla metà del secolo XIX, nuovi motivi di tensione si aggiunsero alla fondamentale questione contadina. È il momento in cui, sotto Nicola I (1825-55) – che certamente non ne fu responsabile – si affermò la grande letteratura russa, con Puskin (1799-1837), Lermontov (1814-41), Gogol’ (1809-52), di Turgenev (1818-83), di Dostoevskij (1821-81), di Tolstoj (1828-1910) … Fu un’immensa presa di coscienza da parte della Russia. Nuove forme di rivoluzione e di agitazione rivoluzionaria si diffusero e proliferarono ben presto, dal piccolo movimento dei «decabristi» nel 1825, fino alle fucilate davanti al Palazzo d’inverno (1905); dai nichilisti degli anni sessanta alla costituzione del partito socialista democratico russo, il primo partito marxista, a Minsk nel 1898; dagli slavofili ( spesso rivoluzionari sciovinisti) ai occidentali accaniti. Gli intellettuali, la gioventu, gli studenti (questi soprattutto) e gli esuli portarono la fiaccola della rivoluzione futura, verso cui converge tutta la storia russa.
Capitolo secondo L’URSS, DAL 1917 AI GIORNI NOSTRI
Nel corso di queste pagine non è tanto nostra intenzione di seguire la storia della rivoluzione del 1917 nelle sue premesse e nelle sue conseguenze politiche, economiche e sociali, quanto di affrontare i grandi problemi che riguardano la storia della civiltà sovietica: 1) In che modo il marxismo ha incontrato e successivamente guidato la rivoluzione russa? 2) In che modo esso continua a essere presente nell’attualità sovietica, da un punto di vista umano, di là dai piani e dalle cifre che pure hanno la loro enorme importanza? 3) È possibile, in mezzo a tali conflitti e a un tale sistema di imposizioni comprendere il presente e il futuro della civiltà sovietica? Da Marx a Lenin. Gli attenti ambienti intellettuali e rivoluzionari russi, filoccidentali e contrari ai tradizionalisti slavofili, furono presto conquistati dal pensiero di Marx. Rapidamente il marxismo raccolse adepti nell’università di Pietroburgo, tra gli economisti e gli storici, proprio nella misura in cui questa si opponeva all’università conservatrice di Mosca. Il marxismo è il frutto della fruttuosa collaborazione tra l’opera, essenziale, di Karl Marx (1818-83) e quella, di secondo piano, di Friedrich Engels (1820-95), che lavorò al suo fianco per quarant’anni e gli sopravvisse per altri dodici. La dottrina marxista segna una svolta fondamentale nel pensiero e nell’azione rivoluzionari dei secoli XIX e XX, nella misura in cui essa collega la rivoluzione alla società capitalistica moderna e industrializzata di cui sarebbe il prodotto naturale e inevitabile; e anche nella misura in cui presenta una concezione generale del mondo, basata sull’interdipendenza delle cause sociali ed economiche. La dialettica di Marx (intendendo per dialettica la ricerca di una verità attraverso le contraddizioni) si ispira a Hegel, pur opponendosi alla sua filosofia. Per Hegel, lo spirito domina il mondo materiale e l’uomo è anzitutto coscienza; per Marx, al contrario, il mondo materiale predomina sullo spirito. «Il sistema hegeliano poggiava sul capo – scrisse Marx – noi lo abbiamo rimesso sui piedi». Ciò non toglie che la dialettica di Marx riprenda le fasi della dialettica di Hegel: 1) affermazione; 2) negazione; 3) negazione della negazione, cioè affermazione di una verità in divenire che tiene conto delle due prime fasi e le concilia. Tale schema ragionativo è sempre presente alla base dell’argomentare di Marx. «La dialettica è l’algebra della rivoluzione», dirà il rivoluzionario russo Herzen. Il linguaggio di Marx ha comunque l’arte di mettere in luce e precisare le contraddizioni, dopo averle riconosciute «scientificamente» come tali, per poi superarle. Il marxismo è stato definito come una dialettica materialistica: la formula non è errata, anche se Marx non se ne servi e se – come Lenin osservò – insistette piu sulla dialettica che sul materialismo. La stessa osservazione si potrebbe fare a proposito del materialismo storico, formula piuttosto infelice di Engels, poiché Marx insistette assai piu sulla storia che non sul materialismo. È un fatto che Marx attinse gli argomenti dialettici della sua dottrina rivoluzionaria dall’analisi storica della società e questa fu una delle grandi novità della sua opera. La società occidentale del secolo XIX gli parve minata da una contraddizione fondamentale, la cui analisi dialettica forma la base stessa del marxismo. Riassumiamolabrevemente. Il lavoro è per l’uomo un mezzo per liberarsi dalla natura e per dominarla. Lavorando egli prende coscienza della sua essenza, che è quella di far parte, lavoratore fra tanti altri, di una società. Nella società che è lavoro e liberazione, si trovano insieme «naturalismo dell’uomo » e «umanesimo della natura». «La società è la consustanzialità dell’uomo con la natura». Sul valore e il significato del lavoro umano questo rappresenta il momento dell’affermazione. Il secondo momento è quello della negazione: nella società che Marx ha sotto gli occhi, per uno strano paradosso, il lavoro, invece di liberare l’uomo, lo rende schiavo. L’uomo è escluso dalla proprietà dei mezzi di produzione (la terra o la fabbrica) e dagli utili stessi della produzione. È costretto a vendere il proprio lavoro, ad alienarlo a favore di altri. La società moderna ha fatto del lavoro un mezzo di asservimento. Quale sarà a questo punto la negazione della negazione, cioè il modo di uscire da tale contraddizione? La società capitalistica che crea l’alienazione, sfocia, quando raggiunge lo stadio dell’industrializzazione, nel lavoro e nella produzione di massa, quindi nella formazione di una classe sempre piu estesa di asserviti, consci del loro asservimento: il proletariato. Quest’ultimo aggrava automaticamente la lotta delle classi, la guerra delle classi e provoca cosf la rivoluzione a breve scadenza. Poiché il capitalismo industriale è l’ultima fase di un’evoluzione storica che ha successivamente condotto la società umana dallo schiavismo al feudalesimo e poi al capitalismo (mercantile prima, industriale poi), il mondo del secolo XIX, giunto alla fase dell’industrializzazione, è pervenuto contemporaneamente alla fase della rivoluzione e dell’abolizione della proprietà privata, che prelude al comunismo. Il comunismo, però, non si sostituirà da un giorno all’altro alla società capitalistica (è noto che Marx, pur conoscendo fin dal 1846 il termine capitalista, non utilizza ancora quello comodo di capi talismo). Come spiega egli stesso (1875), quando la nuova società sarà riuscita, bene o male, a liberarsi della vecchia, ci sarà una « fase inferi re del comunismo». La terminologia la indica, ancor oggi, con il nome di socialismo: «a ciascuno secondo il suo lavoro». Soltanto la fase superiore di questa evoluzione si chiama comunismo. È una specie di terra promessa. «La società potrà (allora) scrivere sulle sue bandiere: daciascuno a seconda delle sue capacità (nel settore della produzione), a ciascuno secondo i suoi bisogni in quello del consumo)». La dialettica di Marx è evidentemente ottimistica, «ascendente», come l’ha definita Georges Gurvitch.Per i rivoluzionari russi il messaggio di Marx poté sembrare deludente, nella misura in cui Marx, dopo tutto, constatò l’impossibilità teorica, per il momento, di un’azione rivoluzionaria in Russia, nonostante le sue esitazioni in proposito verso il 1880, alla notizia delle agitazioni rivoluzionarie russe. In Russia il proletariato industriale era ancora troppo limitato: il processo che contribuiva a formarlo richiedeva ancora molti anni e bisognava attendere che le nuove condizioni determinate dalle forze produttive del capitalismo sviluppassero appieno tutti i loro effetti. Soltanto allora sarebbe sorta «un’età di rivoluzione sociale», quando ne fossero state presenti tutte le condizioni. Il fatto è che Marx ed Engels avevano pensato, discusso e agito basandosi sull’esempio dell’Inghilterra che, quando usd il primo libro del Capitale (1867), era nel pieno della sua rivoluzione industriale o, piu esattamente, delle difficoltà che questa aveva provocato senza avere ancora offerto il mezzo di superarle. Ragionarono, inoltre, basandosi sugli esempi della Francia e della Germania – la seconda di poco in ritardo sulla prima – insomma, in funzione di situazioni molto diverse da quelle della Russia zarista. Come pensare, dunque, a una rivoluzione sociale in nome di quegli stessi principi, nella Russia di fine Ottocento, pochissimo industrializzata, dove i contadini rappresentavano da soli l’80% della popolazione, contro il 5 % di operai? Lenin vedrà chiaramente questa contraddizione, fin dall’epoca in cui usci Lo sviluppo ,del capitalismo in Russia (1899) e piu ancora alla vigilia e all’indomani della rivoluzione del 1905. Lenin, discepolo di Marx, fu certo prigioniero di un pensiero che ammirava e al cui interno si muoveva agilmente; di solito non si ritrovano in lui idee che non fossero già di Marx. Tuttavia, benché la sua genialità appaia soprattutto evidente nel campo della dottrina d’azione rivoluzionaria, anche sul piano della teoria, la sua originalità è molto piu grande di quanto di solito si affermi. Lenin, che apparteneva alla piccola nobiltà russa e che, parlando, aveva l’accento caratteristico degli aristocratici del suo paese, non è soltanto un « rappresentantè del popolo russo», e della sua semplicità e di « intelligenza pratica». Non fu neppure uno spirito esclusivamente dedito all’azione. Le sue analisi concrete e originali, le sue dure critiche che gli valsero «l’onore di ripulire le scuderie d’Augia della Seconda Internazionale», si moltiplicano. Egli si impegna nell’azione, ma dopo aver riflettuto lungamente, con passione e lucidità. Di conseguenza i suoi contrasti con Marx si producono là dove avrebbero dovuto prodursi a priori, sul piano di una procedura rivoluzionaria che egli concepiva evidentemente nel quadro della Russia e che, concretamente, si definisce attraverso i rapporti tra «proletariato» e «partito rivoluzionario». Lenin attribui un primato sistematico alla politica rispetto al momento sociale ed economico, al partito rispetto alla massa proletaria; fu favorevole, forzando i termini, a «la politica innanzitutto». Per Marx la rivoluzione è il risultato di esplosioni sociali quasi naturali, che al momento giusto si producono sotto la spinta dell’industrializzazione e della lotta di classe. Il proletariato, che l’industrializzazione stiva nelle città, è rivoluzionario ed esplosivo per natura. Accanto ad esso, una parte della borghesia, nel cui stesso seno si sono formate le nuove ideologie, ha già esaurito la sua vocazione rivoluzionaria. Forse, in certe occasioni, ci si può servire ancora del gioco e dell’appoggio di questa borghesia democratica e liberale, ma riguardo a tale strategia Marx ed Engels hanno esitato a lungo. Dopo il 1848, e non senza ragione, impararono soprattutto a diffidare delle possibilità reazionarie del mondo contadino francese, di questo falso proletariato attaccato al suo piccolo pezzo di terra. La discussione sulle forme dell’azione rivoluzionaria rimase aperta a lungo dopo la scomparsa di Marx (1883). La tedesca Rosa Luxemburg (1870-1919), continuò, sulla scia di Marx, a ritenere che il proletariato operaio fosse il solo degno di fiducia e il motore unico della rivoluzione, che tutte le al tre classi fossero di conseguenza nemiche e che il «partito» dovesse essere esclusivamente proletario, seguito da vicino, dal di dentro, e controllato alla base; questo le appariva l’unico sistema per ovviare alla sua burocratizzazione. L’orientamento di Lenin è diverso: d’accordo con certi riformisti, egli metteva in dubbio («nell’età dell’imperialismo») il carattere naturalmente e spontaneamente rivoluzionario del proletariato ( e d’altronde aveva in orrore la «spontaneità»). Secondo lui era giunta l’ora di mettere l’accento sul partito e sulle alleanze che possono collegare al proletariato altri strati sociali oppressi, quali che siano. Nel 1902, in Che fare?, sostenne che senza l’azione di un partito centralizzato, formato da rivoluzionari di professione, il proletariato non si sarebbe orientato verso la rivoluzione ma verso il riformismo e un certo tradeunionismo, abbandonandosi forse anche all’utopia di un’aristocrazia operaia. Non è forse vero che in Inghilterra l’allora nascente Labour Party si opponeva al reticente conservatorismo delle Trade Unions, e che in Francia, piu di quanto si sia soliti riconoscere, il sindacalismo rappresentò un ostacolo per l’avanzata del socialismo? Contro Rosa Luxemburg e qualche altro, Lenin sostenne inoltre che l’era delle guerre nazionali non era affatto chiusa e che erano necessarie alleanze con le borghesie liberali. Piu ancora, e sempre contro Rosa Luxemburg e il «luxemburghismo», si mostrò propenso a un programma di riforme agrarie, rifiutando, in ogni caso, di considerare il mondo contadino come un elemento reazionario. Su questo punto decisivo egli fu certamente influenzato dai socialisti rivoluzionari russi; vide come loro nel mondo contadino asservito la molla essenziale della rivoluzione e non intese lasciare inutilizzata quell’immensa forza esplosiva. Per quanto riguarda la Russia, Lenin aveva ragione: saranno i contadini ad assicurare, com’è noto, il successo del 1917. Non è possibile entrare nei particolari di discussioni e posizioni ideologiche, alcune delle quali avrebbero avuto una parte importante nell’evoluzione dell’Urss dopo il 1917. Esse bastano a dimostrare come si sia operato un trapasso culturale dal marxismo iniziale al leninismo. Quest’ultimo è un marxismo ripensato, «reinterpretato», direbbero gli antropologi, adattato a un paese ancora sottoindustrializzato e prevalentemente agrario come era la Russia degli zar all’inizio, cosi vicino e già cosi lontano, del Novecento. «Il proletariato vi aveva un’importanza numerica troppo scarsa, e di conseguenza un’importanza economica, sociale e politica insufficiente a provocare con le sue sole forze la rivoluzione che l’avrebbe immediatamente messo contro tutta la società» (Lucien Goldmann). Il partito socialdemocratico russo, piu tardi partito comunista, fu creato (1898) dalla seconda generazione di marxisti russi (Lenin, Martov, Dan), d’accordo con la prima generazione ( Georgij Plechanov, Pavel Aksel’ rod, Vera Zasulic, Lev Deutsch) che aveva formato all’estero il gruppo della liberazione del lavoro ( Gruppa Osvobozdenij a Truda). Durante il II congresso del partito socialdemocratico a Londra (1903) si produsse una scissione tra bolscevichi ( cioè, in russo, «i maggioritari», di un solo voto, peraltro) e menscevichi («i minoritari») tra i quali lo stesso Plechanov. (In realtà, ben presto la «minoranza» tornerà a essere«maggioranza» nel partito socialdemocratico russo). Motivo della scissione fu ]’articolo I dello statuto, nel quale Lenin aveva introdotto alcune disposizioni note sotto il nome di «centralismo democratico». Queste prevedevano: 1) la funzione preponderante dei « rivoluzionari di professione» (insomma dei tecnici); 2) una disciplina di ferro all’interno del partito; 3) i poteri estesi e dittatoriali del comitato centrale su tutto i] partito, in particolare sulle organizzazioni di base; 4) in caso di necessità, il passaggio di tutti i poteri del comitato a una direzione ristretta. Il partito diventava chiaramente una macchina di guerra autonoma contro la quale la minoranza gridò alla dittatura e all’abbandono dei principi democratici (Trockij previde allora che la concezione leninista avrebbe condotto alla dittatura di un solo uomo che fosse a capo del comitato centrale). D’altra parte è certo che proprio le condizioni particolari della Russia, dal punto di vista dello sviluppo sociale e industriale, imposero tale atteggiamento tattico. Nel 1905 Lenin combatté categoricamente la tesi di certi socialisti, peraltro poco numerosi, che giudicavano possibile « la rivoluzione socialista (cioè attuata dal proletariato), come se le forze produttive di questo paese fossero già sufficientemente sviluppate per una rivoluzione del genere». Ancora piu illuminante è la polemica in extremis nel 1917, alla vigilia della presa del potere da parte dei rivoluzionari, tra Lenin e il fondatore della scuola marxista russa Georgij Plechanov. Lenin si difese dall’accusa di voler prendere il potere; se lo avesse fatto, sarebbe stato soltanto perché sperava di essere soccorso da un’imminente rivoluzione socialista nei paesi del capitalismo avanzato (un sogno, ricordiamolo, cui la rivoluzione russa, condannata fin quasi dall’inizio a fare da sé, dovette rinunciare ben presto). Plechanov, tornando agli argomenti marxisti di base – debolezza del proletariato operaio e del capitalismo, maggioranza schiacciante di contadini – avverti Lenin che, se si fosse impadronito del potere, sarebbe stato costretto a ricorrere, lo volesse o no, alla dittatura e a metodi terroristici di governo. Lenin replicò che parlare in questo modo equivaleva a insultarlo; tuttavia prese il potere e scatenò la rivoluzione agraria, come Mao Tsetung avrebbe fatto una trentina d’anni dopo. Quei problemi continuarono però a preoccuparlo. Quando, nel 1921, con la NEP, fece per un momento marcia indietro, le sue dichiarazioni riecheggiarono, in modo significativo, quella linea di pensiero e quelle vecchie discussioni: «Ci siamo sbagliati, – diceva in sostanza – Abbiamo agito come se si potesse costruire il socialismo in un paese in cui il capitalismo quasi non esisteva. Prima di voler realizzare la società socialista, bisogna ricostruire il capitalismo». La NEP non sopravvisse a Lenin. A partire dal 1928-29, Stalin puntò sull’industrializzazione del paese che da quel momento fu affrontata con tutti i mezzi a disposizione, con le difficoltà e, infine, col grandioso successo che conosciamo. Ma torniamo indietro, al 1883 (l’anno stesso della morte di Marx) e cerchiamo di chiarire ancora certe posizioni. Georgij Plechanov, immaginando il caso in cui rivoluzionari «per sbaglio» o «per complotto» si fossero impadroniti del potere, scriveva che costoro «non avrebbero potuto creare che un socialismo da impero degli lncas», cioè un socialismo autoritario. Plechanov riprendeva in tal modo un’espressione dello stesso Marx, che, riferendosi a un’eventualità del genere, aveva parlato a sua volta di «socialismo da convento» o« socialismo da caserma». Non vogliamo, utilizzando queste frasi e questi dibattiti, ritornare, come spesso si è fatto, sugli avvenimenti dell‘ottobre 1917 e le loro conseguenze per condannarne lo svolgimento in nome di un «marxismo puro» che la storia avrebbe superato o di cui si sarebbe fatta beffe. Il fatto da sottolineare è invece che, per un caso, la rivoluzione socialista è iniziata nel grande paese meno industrializzato dell’Europa di allora. Per ciò stesso era impossibile che la rivoluzione vi si svolgesse secondo lo schema marxista della presa del potere da parte del proletariato. Il potere fu preso dal partito comunista ( è il nome assunto dal partito socialdemocratico), cioè da un’infima minoranza in rapporto all’immensa Russia, forse 100 mila persone. Tale minoranza, organizzata a meraviglia, ha approfittato dello spaventoso sbandamento dei dieci o dodici milioni di contadini che sfuggendo ai quadri dell’esercito e se necessario uccidendosi a vicenda, rifluirono verso i loro villaggi e cominciarono a impadronirsi delle terre degli aristocratici, dei ricchi borghesi, della Chiesa, dei conventi, della corona e dello stato. A Lenin si attribuisce una battuta: «Se lo zarismo ha potuto andare avanti per secoli grazie a 130 mila aristocratici, proprietari feudali che mantenevano l’ordine ognuno nella propria regione, perché io non potrei durare qualche decina d’anni, con un partito di 130 mila militanti devoti?» Gli si attribuisce anche questa frase napoleonica: «Diamoci dentro e poi si vedrà». «Durare qualche decina d’anni», fino a quando cioè la Russia avesse raggiunto il grado di sviluppo e di industrializzazione da cui avrebbe dovuto partire una rivoluzione «ragionevole», sarà da allora in poi il problema cruciale russo. E sarà anche la causa di una dittatura implacabile che non è stata la «dittatura del proletariato», ma la dittatura dei capi comunisti, in nome di un proletariato in via di formazione. «Sotto Stalin questa dittatura dei capi divenne quella di un solo uomo». L’esempio costantemente evocato da quei foschi e drammatici anni della vita russa è quello del Comitato di salute pubblica del 179 3-94, senza il fallimento finale. La ragione della differenza è indubbiamente la ferrea organizzazione del partito unico, che ha proibito ogni «frazione» duratura, al contrario di quanto avvenne a Parigi nel 1794. Marxismo e civiltà sovietica, oggi. Da quasi mezzo secolo l’Urss vive sotto un regime di dittatura politica, senza libertà di stampa, di parola, di opinione, di associazione e di sciopero, con un partito unico, disciplinato, «monolitico», dove i conflitti sotterranei non affiorano che attraverso drammatici scontri di persone. Da qualche anno solamente, all’indomani della morte di Stalin (1953), un movimento di liberalizzazione – diciamo piuttosto una umanizzazione, perché liberalizzazione è ancora un termine peggiorativo, per i comunisti, una umanizzazione, dunque, si è manifestata lentamente, prudentemente, ma a quanto sembra con moto irreversibile. La ragione della cosiddetta «destalinizzazione» non sarà forse che le ore drammatiche dell’urgenza, i tempi da Comitato di salute pubblica, sono finiti? L’Urss non ha certo superato tutte le sue difficoltà interne, ma è ormai entrata nella famiglia dei grandissimi paesi industrializzati e dei popoli privilegiati: si è conquistata questo posto col sudore della fronte, ma ora lo occupa saldamente e ha contemporaneamente costruito, intenzionalmente o no, le nuove strutture necessarie a una civiltà di massa. Solo ora, forse, essa è libera, per la prima volta, di scegliere la propria rivoluzione, la propria strada, quanto meno sul piano interno, perché la sua eccezionale importanza sul piano della politica mondiale e il suo ruolo di leader delle nazioni socialiste le impongono ormai vincoli di altro ordine, esterni.
Evoluzione del marxismo. Cinquant’anni di sforzi e di guerre su tutti i fronti sono tanti. Non ci si stupirà dunque se, durante questi anni, il marxismo-leninismo, dottrina di stato, pur salvaguardando i suoi grandi temi e le sue teorie tradizionali, ha subito una grande evoluzione: semmai, potrebbe stupirci il contrario. Se i discorsi ufficiali ripetono le formule consacrate sulla lotta di classe, la prassi, lo schiavismo, il feudalesimo, il capitalismo, la pauperizzazione relativa, la dialettica materialistica, la base materiale, o l’avvento di una società senza classi e meravigliosamente felice, ciò non significa affatto che la grande ideologia non sia stata trascinata, come tutte le ideologie e tutte le religioni, per il fatto stesso del loro trionfo, in un’evoluzione che è quella della vita stessa. D’altronde era già un’opinione acquisita da tutta l’intelligencija russa all’inizio del secolo e successivamente adottata dai rivoluzionari, che un’idea non abbia valore altro che se si concretizza nella vita pratica, nella prassi. Il marxismo, sistema di idee strettamente legate le une alle altre, non ha avuto valore che una volta messo alla prova dell’esperienza vissuta da milioni di uomini. Si accentuò ancora la sua pressione per reagire contro le influenze del «marcio Occidente». Letteratura, teatro e cinema vennero strettamente sorvegliati, la minima deviazione denunciata e punita. Nel 1948 i grandi compositori Prokof’ev, Sostakovic, Chacatur’jan furono oggetto di violenti attacchi per il loro ermetismo e il loro abuso di dissonanze… Insomma, sotto la dittatura di Stalin gli artisti furono irreggimentati come tutta la popolazione sovietica. La produzione di quest’epoca è caratterizzata, senza eccezione, dal conformismo e dalla mediocrità. La morte di Stalin ha cambiato tutto? Si e no. La reazione, indubbiamente, fu immediata, e brutale la distensione, ma l’esplosione liberale è parsa pericolosa. Di recente è stata frenata. La fine del 1953 e il 1954 sono caratterizzati da una profusione di commedie satiriche sulle tare della società sovietica; l’articolo di un giovane critico sulla « sincerità in letteratura», pubblicato dalla rivista «Novyj Mir», mette in ridicolo la tradizionale divisione tra personaggi positivi e negativi. Nonostante le sanzioni che tali auda-cie si attirarono, la critica del culto della personalità e la destalinizzazione diedero luogo a loro volta ad una nuova libertà di linguaggio. Il ritorno di centinaia di migliaia di deportati e la certezza che le sanzioni violente erano ormai abolite, stimolarono un’effervescenza intellettuale cosf vivace, una tale trasformazione che i dirigenti ne furono spaventati (semmai erano gli scrittori distintisi sotto Stalin che dovevano tacere e stava alle vittime, se erano ancora in vita, parlare ad alta voce). Nel 1957 i letterati e gli artisti vennero richiamati all’ordine, pregati di astenersi da ogni «revisionismo» e invitati a non diffamare sistematicamente la realtà sovietica con il pretesto di non volerla «abbellire e riverniciare». Questo atteggiamento rispecchia la politica di Nikita Chruscev. La condanna dei metodi di Stalin è certa; gli avversari politici destituiti non vengono piu né giustiziati, né fatti oggetto di violenze fisiche e una certa liberaliziazione è intervenuta nei rapporti culturali e nelle relazioni con l’estero. Ma, aprire le porte a una violenta campagna di critica, nel momento stesso in cui la rivelazione dei crimini di Stalin sconvolgeva profondamente una gioventu che lo aveva ciecamente ammirato, voleva dire mettere in pericolo il regime e la posizione dell’Urss come leader dei paesi socialisti del mondo; mettere in gioco, forse, una parte della sua potenza internazionale. Il governo ha dunque reagito, senza debolezza. Il pubblico segue questa lotta? Il gusto del grande pubblico popolare è orientato verso il teatro classico russo o straniero, verso il folklore, «puro, stilizzato o adattato», verso l’opera classica che gli ex contadini hanno appena scoperto. Perciò hanno successo le opere liriche, dal Faust alla Traviata o alla Carmen, che fanno concorrenza alle danze dell’Armata rossa, o al balletto di Cajkovskij, Il lago dei cigni. Non bisogna però credere che in questo campo si distinguano due «piani» diversi, il grosso pubblico e l’élite intellettuale. La libertà di espressione che scrittori e artisti reclamano e desiderano, è il problema cruciale del presente e del futuro dell’Urss. La gloria della matematica e delle scienze. Tali problemi non si pongono affatto per quanto riguarda le scienze esatte, che si trovano invece in piena fioritura. Le scienze sono un settore intellettuale di solito poco controllato; spesso lo scienziato non ha niente a che vedere con le discussioni politiche e ideologiche e può evitarle. D’altronde i russi sono sempre stati matematici di grande valore e il governo non ha lesinato né i crediti né gli incoraggiamenti; ed è un compito eccitante quello di fabbricare un mondo o immaginarne di nuovi e inediti. Occorre dire infine che sul piano della ricerca l’autoritarismo ha i suoi lati positivi: nei paesi capitalisti la ricerca tende a disperdersi secondo i diversi rami dell’industria, alle cui esigenze deve rispondere. Nell’Urss invece si concentra sulle opzioni governative. L’industria e piu ancora la comodità della vita sovietica, trascuratissima fino a poco tempo fa, ci hanno perso, ma la ricerca e l’organizzazione dei gruppi scientifici vi hanno indubbiamente guadagnato. E oggigiorno il buon risultato della ricerca non è piu appannaggio del miglior scienziato, ma del gruppo migliore. Come non render grazie all’Accademia delle scienze dell’Urss? Quali conclusioni trarre? L’Urss ha appena superato difficoltà incredibili, ed è alla soglia di fantastici successi nel campo materiale. Buoni successi sono già stati raggiunti, ma la formazione delle nuove strutture non è ancora terminata; è resa difficile da ricordi tragici e dalla stessa ripercussione dell’esperienza sovietica nel mondo. Nel momento in cui l’Urss sarebbe quasi libera di scegliere il suo destino interno, deve invece tener conto dell’eco dei suoi atti sulla scena internazionale. Essa lo sconta con una certa limitazione della sua libertà, una limitazione che continua a esistere nonostante la destalinizzazione. Lo sconta anche nelle« sovrastrutture» dell’arte e delle lettere (terreno di un’evasione senza la quale nessuna civiltà può comprendersi fino in fondo né esprimersi totalmente). Auguriamoci che tali sovrastrutture fioriscano improvvisamente come i meli a Mosca, sulla piazza del Bol’soj, al primo sole tiepido della primavera. Il congresso dell’ottobre 1961. Il drammatico XXII congresso del partito comunista, tenuto nell’ottobre del 1961, illumina a giorno l’odierna situazione dell’Urss. Non è nostra intenzione soffermarci sul drammatico scontro di personalità, né fare un elenco delle condanne, dei «morti vivi» o dei«vivi morti», né analizzare con calma uno sconvolgimento che fa pensare all’atmosfera di un romanzo di Dostoevskij,. ai personaggi tormentati e tormentatori dei Fratelli Karamazov. Quel che ci interessa è la civiltà sovietica messa di fronte a scelte e compiti difficili, sul piano interno ed esterno, dal cui successo dipenderà il suo avvenire. Compiti difficili: il primo riguarda le nazionalità allogene, le razze e civiltà non russe, molto numerose tra le repubbliche federate; il secondo l’avvenire materiale (ma è poi soltanto materiale?) della civiltà sovietica, presa nel suo insieme; il terzo, il destino del comunismo internazionale che perde anch’esso il suo monolitismo di ieri per diventare« policentrico» e cedere il passo ai «comunismi delle patrie». Per quanto riguarda il primo problema, la posta in gioco è la seguente: l’Urss, come il suo nome indica, è e vuol essere una federazione di repubbliche, di stati indipendenti ma legati tra loro. Può tale coesistenza migliorare e condurre a una solida civiltà unificata? L’unione realizzata dall’impero zarista ha subito, già prima del 1917, molte traversie. Spezzata, ripresa, consolidata, nuovamente rimessa in causa, essa rimane un problema difficile e senza soluzione perfetta. Benché realmente autonome, le varie repubbliche non sono però indipendenti, poiché la difesa, la polizia, le comunicazioni, dipendono dal potere centrale, rappresentato dai suoi delegati presso il comitato centrale di ogni repubblica. Esistono nazionalismi e «sciovinismi» locali, sovente denunciati, che hanno anche dato luogo a conflitti. Così la Georgia è stata fatta rientrare nell’Unione nel 1921 e oggi la destalinizzazione vi si scontra con l’ostacolo rappresentato dalla sua fedeltà al piu illustre dei Georgiani. Gli stati baltici, libera ti nel 1918, annessi nel 1940, rioccupa ti nel 1945, avevano goduto, sotto gli zar, di uno statuto privilegiato che non ha riscontro nella nuova situazione. Nel Chirghisistan, nel 1949-51, ci fu una crisi a proposito dell’epopea nazionale, Ma as, vietata dalle autorità. Nell’Azerbaigian, il Soviet Supremo, nel 1958, dichiarò il suo proposito di voler riconoscere come sola lingua della repubblica l’azeri. Interessi locali, culture, lingue originali, tradizioni storiche, fedeltà o no al comunismo, intrusione o immigrazione in tutte queste repubbliche americana nel Vietnam – soprattutto per i bombardamenti del Vietnam del nord – sia per la polemica di Pechino contro Mosca. L’Urss è anche portata ad accordare maggiore importanza a quei paesi dell’Europa occidentale con i quali le sue relazioni possono migliorare. Tra questi paesi la Francia, per ragioni storiche e politiche, occupa una posizione privilegiata. Il successo del viaggio del generale De Gaulle nell’Unione Sovietica nel giugno del 1966 si spiega, in gran parte, con questa nuova congiuntura internazionale.