Fernand Braudel – Moscovia, Russia, Urss
Estratto da Fernand Braudel “Il mondo attuale”, Einaudi, 1963
kazna, il fisco; tamoznja, la dogana; jam, la stazione di posta; den’ gi, il denaro; kaznacej, il tesoriere e cosi via. La civiltà superiore dell’Orda d’Oro trasmise un certo carattere asiatico agli usi e costumi della Moscovia. In realtà, questa si era comportata come una popolazione barbarica, illuminata e soggiogata da una civiltà superiore. Questa convivenza ricorda da vicino – anche se con conflitti meno forti – i rapporti tra la Spagna cristiana e la brillante Spagna musulmana. Va notato che lo zar di Mosca prese il sopravvento sul khan musulmano verso il 1480, nel momento stesso in cui la reconquista spagnola andava avvicinandosi al suo ultimo atto, la presa di Granada del 1492. La vittoria di Mosca fu preparata nel corso di innumerevoli e oscure lotte con i principati vicini, e si delineò chiaramente solo con il principato di Ivan III (1462-1505), cui certi storici russi attribuivano una volta importanza superiore a quella di Pietro il Grande. Poco dopo la sua ascesa al trono, nel 1469, Ivan III sposò Sofia, erede dei Paleologhi, gli ultimi imperatori di Bisanzio. Cosi, all’indomani della caduta di Costantinopoli nelle mani dei Turchi ( 1453 ), Mosca diventava la terza Roma, per «dominare e salvare il mondo». Tuttavia, quello che a lunga scadenza fu un enorme successo di prestigio (il titolo di zar, probabilmente deformazione di Caesar, fu assunto dal principe ereditario di Mosca solo nel 1492), contò meno delle vittorie riportate sui Lituani, sull’Orda d’Oro (fine del vassallaggio, nel 1480) e sulla grand
1818-83) e quella, di secondo piano, di Friedrich Engels (1820-95), che lavorò al suo fianco per quarant’anni e gli sopravvisse per altri dodici. La dottrina marxista segna una svolta fondamentale nel pensiero e nell’azione rivoluzionari dei secoli XIX e XX, nella misura in cui essa collega la rivoluzione alla società capitalistica moderna e industrializzata di cui sarebbe il prodotto naturale e inevitabile; e anche nella misura in cui presenta una concezione generale del mondo, basata sull’interdipendenza delle cause sociali ed economiche. La dialettica di Marx (intendendo per dialettica la ricerca di una verità attraverso le contraddizioni) si ispira a Hegel, pur opponendosi alla sua filosofia. Per Hegel, lo spirito domina il mondo materiale e l’uomo è anzitutto coscienza; per Marx, al contrario, il mondo materiale predomina sullo spirito. «Il sistema hegeliano poggiava sul capo – scrisse Marx – noi lo abbiamo rimesso sui piedi». Ciò non toglie che la dialettica di Marx riprenda le fasi della dialettica di Hegel: 1) affermazione; 2) negazione; 3) negazione della negazione, cioè affermazione di una verità in divenire che tiene conto delle due prime fasi e le concilia. Tale schema ragionativo è sempre presente alla base dell’argomentare di Marx. «La dialettica è l’algebra della rivoluzione», dirà il rivoluzionario russo Herzen. Il linguaggio di Marx ha comunque l’arte di mettere in luce e precisare le contraddizioni, dopo averle riconosciute «scientificamente» come tali, per poi superarle. Il marxismo è stato definito come una dialettica materialistica: la formula non è errata, anche se Marx non se ne servi e se – come Lenin osservò – insistette piu sulla dialettica che sul materialismo. La stessa osservazione si potrebbe fare a proposito del materialismo storico, formula piuttosto infelice di Engels, poiché Marx insistette assai piu sulla storia che non sul materialismo. È un fatto che Marx attinse gli argomenti dialettici della sua dottrina rivoluzionaria dall’analisi storica della società e questa fu una delle grandi novità della sua opera. La società occidentale del secolo XIX gli parve minata da una contraddizione fondamentale, la cui analisi dialettica forma la base stessa del marxismo. Riassumiamolabrevemente. Il lavoro è per l’uomo un mezzo per liberarsi dalla natura e per dominarla. Lavorando egli prende coscienza della sua essenza, che è quella di far parte, lavoratore fra tanti altri, di una società. Nella società che è lavoro e liberazione, si trovano insieme «naturalismo dell’uomo » e «umanesimo della natura». «La società è la consustanzialità dell’uomo con la natura». Sul valore e il significato del lavoro umano questo rappresenta il momento dell’affermazione. Il secondo momento è quello della negazione: nella società che Marx ha sotto gli occhi, per uno strano paradosso, il lavoro, invece di liberare l’uomo, lo rende schiavo. L’uomo è escluso dalla proprietà dei mezzi di produzione (la terra o la fabbrica) e dagli utili stessi della produzione. È costretto a vendere il proprio lavoro, ad alienarlo a favore di altri. La società moderna ha fatto del lavoro un mezzo di asservimento. Quale sarà a questo punto la negazione della negazione, cioè il modo di uscire da tale contraddizione? La società capitalistica che crea l’alienazione, sfocia, quando raggiunge lo stadio dell’industrializzazione, nel lavoro e nella produzione di massa, quindi nella formazione di una classe sempre piu estesa di asserviti, consci del loro asservimento: il proletariato. Quest’ultimo aggrava automaticamente la lotta delle classi, la guerra delle classi e provoca cosf la rivoluzione a breve scadenza. Poiché il capitalismo industriale è l’ultima fase di un’evoluzione storica che ha successivamente condotto la società umana dallo schiavismo al feudalesimo e poi al capitalismo (mercantile prima, industriale poi), il mondo del secolo XIX, giunto alla fase dell’industrializzazione, è pervenuto contemporaneamente alla fase della rivoluzione e dell’abolizione della proprietà privata, che prelude al comunismo. Il comunismo, però, non si sostituirà da un giorno all’altro alla società capitalistica (è noto che Marx, pur conoscendo fin dal 1846 il termine capitalista, non utilizza ancora quello comodo di capi talismo). Come spiega egli stesso (1875), quando la nuova società sarà riuscita, bene o male, a liberarsi della vecchia, ci sarà una « fase inferi re del comunismo». La terminologia la indica, ancor oggi, con il nome di socialismo: «a ciascuno secondo il suo lavoro». Soltanto la fase superiore di questa evoluzione si chiama comunismo. È una specie di terra promessa. «La società potrà (allora) scrivere sulle sue bandiere: daciascuno a seconda delle sue capacità (nel settore della produzione), a ciascuno secondo i suoi bisogni in quello del consumo)». La dialettica di Marx è evidentemente ottimistica, «ascendente», come l’ha definita Georges Gurvitch.Per i rivoluzionari russi il messaggio di Marx poté sembrare deludente, nella misura in cui Marx, dopo tutto, constatò l’impossibilità teorica, per il momento, di un’azione rivoluzionaria in Russia, nonostante le sue esitazioni in proposito verso il 1880, alla notizia delle agitazioni rivoluzionarie russe. In Russia il proletariato industriale era ancora troppo limitato: il processo che contribuiva a formarlo richiedeva ancora molti anni e bisognava attendere che le nuove condizioni determinate dalle forze produttive del capitalismo sviluppassero appieno tutti i loro effetti. Soltanto allora sarebbe sorta «un’età di rivoluzione sociale», quando ne fossero state presenti tutte le condizioni. Il fatto è che Marx ed Engels avevano pensato, discusso e agito basandosi sull’esempio dell’Inghilterra che, quando usd il primo libro del Capitale (1867), era nel pieno della sua rivoluzione industriale o, piu esattamente, delle difficoltà che questa aveva provocato senza avere ancora offerto il mezzo di superarle. Ragionarono, inoltre, basandosi sugli esempi della Francia e della Germania – la seconda di poco in ritardo sulla prima – insomma, in funzione di situazioni molto diverse da quelle della Russia zarista. Come pensare, dunque, a una rivoluzione sociale in nome di quegli stessi principi, nella Russia di fine Ottocento, pochissimo industrializzata, dove i contadini rappresentavano da soli l’80% della popolazione, contro il 5 % di operai? Lenin vedrà chiaramente questa contraddizione, fin dall’epoca in cui usci Lo sviluppo ,del capitalismo in Russia (1899) e piu ancora alla vigilia e all’indomani della rivoluzione del 1905. Lenin, discepolo di Marx, fu certo prigioniero di un pensiero che ammirava e al cui interno si muoveva agilmente; di solito non si ritrovano in lui idee che non fossero già di Marx. Tuttavia, benché la sua genialità appaia soprattutto evidente nel campo della dottrina d’azione rivoluzionaria, anche sul piano della teoria, la sua originalità è molto piu grande di quanto di solito si affermi. Lenin, che apparteneva alla piccola nobiltà russa e che, parlando, aveva l’accento caratteristico degli aristocratici del suo paese, non è soltanto un « rappresentantè del popolo russo», e della sua semplicità e di « intelligenza pratica». Non fu neppure uno spirito esclusivamente dedito all’azione. Le sue analisi concrete e originali, le sue dure critiche che gli valsero «l’onore di ripulire le scuderie d’Augia della Seconda Internazionale», si moltiplicano. Egli si impegna nell’azione, ma dopo aver riflettuto lungamente, con passione e lucidità. Di conseguenza i suoi contrasti con Marx si producono là dove avrebbero dovuto prodursi a priori, sul piano di una procedura rivoluzionaria che egli concepiva evidentemente nel quadro della Russia e che, concretamente, si definisce attraverso i rapporti tra «proletariato» e «partito rivoluzionario». Lenin attribui un primato sistematico alla politica rispetto al momento sociale ed economico, al partito rispetto alla massa proletaria; fu favorevole, forzando i termini, a «la politica innanzitutto». Per Marx la rivoluzione è il risultato di esplosioni sociali quasi naturali, che al momento giusto si producono sotto la spinta dell’industrializzazione e della lotta di classe. Il proletariato, che l’industrializzazione stiva nelle città, è rivoluzionario ed esplosivo per natura. Accanto ad esso, una parte della borghesia, nel cui stesso seno si sono formate le nuove ideologie, ha già esaurito la sua vocazione rivoluzionaria. Forse, in certe occasioni, ci si può servire ancora del gioco e dell’appoggio di questa borghesia democratica e liberale, ma riguardo a tale strategia Marx ed Engels hanno esitato a lungo. Dopo il 1848, e non senza ragione, impararono soprattutto a diffidare delle possibilità reazionarie del mondo contadino francese, di questo falso proletariato attaccato al suo piccolo pezzo di terra. La discussione sulle forme dell’azione rivoluzionaria rimase aperta a lungo dopo la scomparsa di Marx (1883). La tedesca Rosa Luxemburg (1870-1919), continuò, sulla scia di Marx, a ritenere che il proletariato operaio fosse il solo degno di fiducia e il motore unico della rivoluzione, che tutte le al tre classi fossero di conseguenza nemiche e che il «partito» dovesse essere esclusivamente proletario, seguito da vicino, dal di dentro, e controllato alla base; questo le appariva l’unico sistema per ovviare alla sua burocratizzazione. L’orientamento di Lenin è diverso: d’accordo con certi riformisti, egli metteva in dubbio («nell’età dell’imperialismo») il carattere naturalmente e spontaneamente rivoluzionario del proletariato ( e d’altronde aveva in orrore la «spontaneità»). Secondo lui era giunta l’ora di mettere l’accento sul partito e sulle alleanze che possono collegare al proletariato altri strati sociali oppressi, quali che siano. Nel 1902, in Che fare?, sostenne che senza l’azione di un partito centralizzato, formato da rivoluzionari di professione, il proletariato non si sarebbe orientato verso la rivoluzione ma verso il riformismo e un certo tradeunionismo, abbandonandosi forse anche all’utopia di un’aristocrazia operaia. Non è forse vero che in Inghilterra l’allora nascente Labour Party si opponeva al reticente conservatorismo delle Trade Unions, e che in Francia, piu di quanto si sia soliti riconoscere, il sindacalismo rappresentò un ostacolo per l’avanzata del socialismo? Contro Rosa Luxemburg e qualche altro, Lenin sostenne inoltre che l’era delle guerre nazionali non era affatto chiusa e che erano necessarie alleanze con le borghesie liberali. Piu ancora, e sempre contro Rosa Luxemburg e il «luxemburghismo», si mostrò propenso a un programma di riforme agrarie, rifiutando, in ogni caso, di considerare il mondo contadino come un elemento reazionario. Su questo punto decisivo egli fu certamente influenzato dai socialisti rivoluzionari russi; vide come loro nel mondo contadino asservito la molla essenziale della rivoluzione e non intese lasciare inutilizzata quell’immensa forza esplosiva. Per quanto riguarda la Russia, Lenin aveva ragione: saranno i contadini ad assicurare, com’è noto, il successo del 1917. Non è possibile entrare nei particolari di discussioni e posizioni ideologiche, alcune delle quali avrebbero avuto una parte importante nell’evoluzione dell’Urss dopo il 1917. Esse bastano a dimostrare come si sia operato un trapasso culturale dal marxismo iniziale al leninismo. Quest’ultimo è un marxismo ripensato, «reinterpretato», direbbero gli antropologi, adattato a un paese ancora sottoindustrializzato e prevalentemente agrario come era la Russia degli zar all’inizio, cosi vicino e già cosi lontano, del Novecento. «Il proletariato vi aveva un’importanza numerica troppo scarsa, e di conseguenza un’importanza economica, sociale e politica insufficiente a provocare con le sue sole forze la rivoluzione che l’avrebbe immediatamente messo contro tutta la società» (Lucien Goldmann). Il partito socialdemocratico russo, piu tardi partito comunista, fu creato (1898) dalla seconda generazione di marxisti russi (Lenin, Martov, Dan), d’accordo con la prima generazione ( Georgij Plechanov, Pavel Aksel’ rod, Vera Zasulic, Lev Deutsch) che aveva formato all’estero il gruppo della liberazione del lavoro ( Gruppa Osvobozdenij a Truda). Durante il II congresso del partito socialdemocratico a Londra (1903) si produsse una scissione tra bolscevichi ( cioè, in russo, «i maggioritari», di un solo voto, peraltro) e menscevichi («i minoritari») tra i quali lo stesso Plechanov. (In realtà, ben presto la «minoranza» tornerà a essere«maggioranza» nel partito socialdemocratico russo). Motivo della scissione fu ]’articolo I dello statuto, nel quale Lenin aveva introdotto alcune disposizioni note sotto il nome di «centralismo democratico». Queste prevedevano: 1) la funzione preponderante dei « rivoluzionari di professione» (insomma dei tecnici); 2) una disciplina di ferro all’interno del partito; 3) i poteri estesi e dittatoriali del comitato centrale su tutto i] partito, in particolare sulle organizzazioni di base; 4) in caso di necessità, il passaggio di tutti i poteri del comitato a una direzione ristretta. Il partito diventava chiaramente una macchina di guerra autonoma contro la quale la minoranza gridò alla dittatura e all’abbandono dei principi democratici (Trockij previde allora che la concezione leninista avrebbe condotto alla dittatura di un solo uomo che fosse a capo del comitato centrale). D’altra parte è certo che proprio le condizioni particolari della Russia, dal punto di vista dello sviluppo sociale e industriale, imposero tale atteggiamento tattico. Nel 1905 Lenin combatté categoricamente la tesi di certi socialisti, peraltro poco numerosi, che giudicavano possibile « la rivoluzione socialista (cioè attuata dal proletariato), come se le forze produttive di questo paese fossero già sufficientemente sviluppate per una rivoluzione del genere». Ancora piu illuminante è la polemica in extremis nel 1917, alla vigilia della presa del potere da parte dei rivoluzionari, tra Lenin e il fondatore della scuola marxista russa Georgij Plechanov. Lenin si difese dall’accusa di voler prendere il potere; se lo avesse fatto, sarebbe stato soltanto perché sperava di essere soccorso da un’imminente rivoluzione socialista nei paesi del capitalismo avanzato (un sogno, ricordiamolo, cui la rivoluzione russa, condannata fin quasi dall’inizio a fare da sé, dovette rinunciare ben presto). Plechanov, tornando agli argomenti marxisti di base – debolezza del proletariato operaio e del capitalismo, maggioranza schiacciante di contadini – avverti Lenin che, se si fosse impadronito del potere, sarebbe stato costretto a ricorrere, lo volesse o no, alla dittatura e a metodi terroristici di governo. Lenin replicò che parlare in questo modo equivaleva a insultarlo; tuttavia prese il potere e scatenò la rivoluzione agraria, come Mao Tsetung avrebbe fatto una trentina d’anni dopo. Quei problemi continuarono però a preoccuparlo. Quando, nel 1921, con la NEP, fece per un momento marcia indietro, le sue dichiarazioni riecheggiarono, in modo significativo, quella linea di pensiero e quelle vecchie discussioni: «Ci siamo sbagliati, – diceva in sostanza – Abbiamo agito come se si potesse costruire il socialismo in un paese in cui il capitalismo quasi non esisteva. Prima di voler realizzare la società socialista, bisogna ricostruire il capitalismo». La NEP non sopravvisse a Lenin. A partire dal 1928-29, Stalin puntò sull’industrializzazione del paese che da quel momento fu affrontata con tutti i mezzi a disposizione, con le difficoltà e, infine, col grandioso successo che conosciamo. Ma torniamo indietro, al 1883 (l’anno stesso della morte di Marx) e cerchiamo di chiarire ancora certe posizioni. Georgij Plechanov, immaginando il caso in cui rivoluzionari «per sbaglio» o «per complotto» si fossero impadroniti del potere, scriveva che costoro «non avrebbero potuto creare che un socialismo da impero degli lncas», cioè un socialismo autoritario. Plechanov riprendeva in tal modo un’espressione dello stesso Marx, che, riferendosi a un’eventualità del genere, aveva parlato a sua volta di «socialismo da convento» o« socialismo da caserma». Non vogliamo, utilizzando queste frasi e questi dibattiti, ritornare, come spesso si è fatto, sugli avvenimenti dell‘ottobre 1917 e le loro conseguenze per condannarne lo svolgimento in nome di un «marxismo puro» che la storia avrebbe superato o di cui si sarebbe fatta beffe. Il fatto da sottolineare è invece che, per un caso, la rivoluzione socialista è iniziata nel grande paese meno industrializzato dell’Europa di allora. Per ciò stesso era impossibile che la rivoluzione vi si svolgesse secondo lo schema marxista della presa del potere da parte del proletariato. Il potere fu preso dal partito comunista ( è il nome assunto dal partito socialdemocratico), cioè da un’infima minoranza in rapporto all’immensa Russia, forse 100 mila persone. Tale minoranza, organizzata a meraviglia, ha approfittato dello spaventoso sbandamento dei dieci o dodici milioni di contadini che sfuggendo ai quadri dell’esercito e se necessario uccidendosi a vicenda, rifluirono verso i loro villaggi e cominciarono a impadronirsi delle terre degli aristocratici, dei ricchi borghesi, della Chiesa, dei conventi, della corona e dello stato. A Lenin si attribuisce una battuta: «Se lo zarismo ha potuto andare avanti per secoli grazie a 130 mila aristocratici, proprietari feudali che mantenevano l’ordine ognuno nella propria regione, perché io non potrei durare qualche decina d’anni, con un partito di 130 mila militanti devoti?» Gli si attribuisce anche questa frase napoleonica: «Diamoci dentro e poi si vedrà». «Durare qualche decina d’anni», fino a quando cioè la Russia avesse raggiunto il grado di sviluppo e di industrializzazione da cui avrebbe dovuto partire una rivoluzione «ragionevole», sarà da allora in poi il problema cruciale russo. E sarà anche la causa di una dittatura implacabile che non è stata la «dittatura del proletariato», ma la dittatura dei capi comunisti, in nome di un proletariato in via di formazione. «Sotto Stalin questa dittatura dei capi divenne quella di un solo uomo». L’esempio costantemente evocato da quei foschi e drammatici anni della vita russa è quello del Comitato di salute pubblica del 179 3-94, senza il fallimento finale. La ragione della differenza è indubbiamente la ferrea organizzazione del partito unico, che ha proibito ogni «frazione» duratura, al contrario di quanto avvenne a Parigi nel 1794. Marxismo e civiltà sovietica, oggi. Da quasi mezzo secolo l’Urss vive sotto un regime di dittatura politica, senza libertà di stampa, di parola, di opinione, di associazione e di sciopero, con un partito unico, disciplinato, «monolitico», dove i conflitti sotterranei non affiorano che attraverso drammatici scontri di persone. Da qualche anno solamente, all’indomani della morte di Stalin (1953), un movimento di liberalizzazione – diciamo piuttosto una umanizzazione, perché liberalizzazione è ancora un termine peggiorativo, per i comunisti, una umanizzazione, dunque, si è manifestata lentamente, prudentemente, ma a quanto sembra con moto irreversibile. La ragione della cosiddetta «destalinizzazione» non sarà forse che le ore drammatiche dell’urgenza, i tempi da Comitato di salute pubblica, sono finiti? L’Urss non ha certo superato tutte le sue difficoltà interne, ma è ormai entrata nella famiglia dei grandissimi paesi industrializzati e dei popoli privilegiati: si è conquistata questo posto col sudore della fronte, ma ora lo occupa saldamente e ha contemporaneamente costruito, intenzionalmente o no, le nuove strutture necessarie a una civiltà di massa. Solo ora, forse, essa è libera, per la prima volta, di scegliere la propria rivoluzione, la propria strada, quanto meno sul piano interno, perché la sua eccezionale importanza sul piano della politica mondiale e il suo ruolo di leader delle nazioni socialiste le impongono ormai vincoli di altro ordine, esterni.
dell’ottobre 1961. Il drammatico XXII congresso del partito comunista, tenuto nell’ottobre del 1961, illumina a giorno l’odierna situazione dell’Urss. Non è nostra intenzione soffermarci sul drammatico scontro di personalità, né fare un elenco delle condanne, dei «morti vivi» o dei«vivi morti», né analizzare con calma uno sconvolgimento che fa pensare all’atmosfera di un romanzo di Dostoevskij,. ai personaggi tormentati e tormentatori dei Fratelli Karamazov. Quel che ci interessa è la civiltà sovietica messa di fronte a scelte e compiti difficili, sul piano interno ed esterno, dal cui successo dipenderà il suo avvenire. Compiti difficili: il primo riguarda le nazionalità allogene, le razze e civiltà non russe, molto numerose tra le repubbliche federate; il secondo l’avvenire materiale (ma è poi soltanto materiale?) della civiltà sovietica, presa nel suo insieme; il terzo, il destino del comunismo internazionale che perde anch’esso il suo monolitismo di ieri per diventare« policentrico» e cedere il passo ai «comunismi delle patrie». Per quanto riguarda il primo problema, la posta in gioco è la seguente: l’Urss, come il suo nome indica, è e vuol essere una federazione di repubbliche, di stati indipendenti ma legati tra loro. Può tale coesistenza migliorare e condurre a una solida civiltà unificata? L’unione realizzata dall’impero zarista ha subito, già prima del 1917, molte traversie. Spezzata, ripresa, consolidata, nuovamente rimessa in causa, essa rimane un problema difficile e senza soluzione perfetta. Benché realmente autonome, le varie repubbliche non sono però indipendenti, poiché la difesa, la polizia, le comunicazioni, dipendono dal potere centrale, rappresentato dai suoi delegati presso il comitato centrale di ogni repubblica. Esistono nazionalismi e «sciovinismi» locali, sovente denunciati, che hanno anche dato luogo a conflitti. Così la Georgia è stata fatta rientrare nell’Unione nel 1921 e oggi la destalinizzazione vi si scontra con l’ostacolo rappresentato dalla sua fedeltà al piu illustre dei Georgiani. Gli stati baltici, libera ti nel 1918, annessi nel 1940, rioccupa ti nel 1945, avevano goduto, sotto gli zar, di uno statuto privilegiato che non ha riscontro nella nuova situazione. Nel Chirghisistan, nel 1949-51, ci fu una crisi a proposito dell’epopea nazionale, Ma as, vietata dalle autorità. Nell’Azerbaigian, il Soviet Supremo, nel 1958, dichiarò il suo proposito di voler riconoscere come sola lingua della repubblica l’azeri. Interessi locali, culture, lingue originali, tradizioni storiche, fedeltà o no al comunismo, intrusione o immigrazione in tutte queste repubbliche americana nel Vietnam – soprattutto per i bombardamenti del Vietnam del nord – sia per la polemica di Pechino contro Mosca. L’Urss è anche portata ad accordare maggiore importanza a quei paesi dell’Europa occidentale con i quali le sue relazioni possono migliorare. Tra questi paesi la Francia, per ragioni storiche e politiche, occupa una posizione privilegiata. Il successo del viaggio del generale De Gaulle nell’Unione Sovietica nel giugno del 1966 si spiega, in gran parte, con questa nuova congiuntura internazionale.