Volodomyr Ishchenko – Dietro la guerra russa ci sono trent’anni di conflitto di classe post-sovietico






L’articolo che qui presentiamo a nostro avviso è uno dei miglior per interpretare la guerra dal lato delle classi dominanti russe. Si sofferma sui caratteri peculiari del capitalismo russo , “capitalismo politico” che ampiamente coincide con il mio ,e  di altri,  comcetto di sistema politico-economico “semifeudale”. Lo stesso vale per la tendenza all’idelogizzazione del sistema putiniano già in corso da qualche hanno ma acceleratasi con l’inizio della guerra a cui nel mio La Russia dopo Putin (Castelvecchi, 2022) dedico un’intero capitolo. Lo stesso vale per la previsione che il sistema putiniano possa ben difficilmente riproduri quando uscirà di scena il suo “lider maxismo” e ciò rende la Russia, tra le altre cose, diversa da altri regimi come la Cina anche se utimamente il ruolo di Xi si è molto accrescito.

Insomma il materiale proposto da Ishchenko è assai smimolante e dimostra quanto il marxismo nel XXI secolo può e deve essere messo al lavoro. (Yurii Colombo)

Pubblicato originariamente in lingua inglese su jacobin.com. Traduzione di Yurii Colombo.

Da quando le forze russe hanno invaso l’Ucraina all’inizio di quest’anno, gli analisti di tutto lo spettro politico hanno lottato per identificare esattamente cosa – o chi – ci ha portato a questo punto. Parole come “Russia”, “Ucraina”, “Occidente” o “Sud globale” sono state usate come se denotassero attori politici unificati. Anche a sinistra, le dichiarazioni di Vladimir Putin, Volodymyr Zelensky, Joe Biden e altri leader mondiali sui “problemi di sicurezza”, “autodeterminazione”, “scelta di civiltà”, “sovranità”, “imperialismo” o “anti-imperialismo” sono spesso prese al valore nominale, come se rappresentassero interessi nazionali coerenti.

In particolare, il dibattito sugli interessi della Russia – o, più precisamente, della cricca al potere in Russia – nel lanciare la guerra tende a polarizzarsi su estremi discutibili. Molti prendono alla lettera ciò che Putin dice, senza nemmeno chiedersi se la sua ossessione per l’espansione della NATO o la sua insistenza sul fatto che ucraini e russi costituiscano “un unico popolo” rappresentino interessi nazionali russi o siano condivisi dalla società russa nel suo complesso. Dall’altra parte, molti liquidano le sue osservazioni come bugie sfacciate e comunicazioni strategiche prive di qualsiasi relazione con i suoi “veri” obiettivi in Ucraina.

A loro modo, entrambe le posizioni servono a mistificare le motivazioni del Cremlino piuttosto che a chiarirle. Le discussioni odierne sull’ideologia russa sembrano spesso un ritorno ai tempi de L’ideologia tedesca, scritta dai giovani Karl Marx e Friedrich Engels circa 175 anni fa. Per alcuni, l’ideologia dominante nella società russa è una vera e propria rappresentazione dell’ordine sociale e politico. Altri credono che basti proclamare che l’imperatore è nudo per far breccia nella bolla dell’ideologia.

Purtroppo, il mondo reale è più complicato. La chiave per capire “cosa vuole davvero Putin” non è scegliere frasi oscure dai suoi discorsi e articoli che si adattano ai pregiudizi degli osservatori, ma piuttosto condurre un’analisi sistematica degli interessi materiali, dell’organizzazione politica e della legittimazione ideologica della classe sociale che rappresenta.

Di seguito, cerco di individuare alcuni elementi di base di tale analisi per il contesto russo. Ciò non significa che un’analisi simile degli interessi delle classi dirigenti occidentali o ucraine in questo conflitto sia irrilevante o inappropriata, ma mi concentro sulla Russia in parte per motivi pratici, in parte perché è la questione più controversa del momento e in parte perché la classe dirigente russa porta la responsabilità principale della guerra. Comprendendo i loro interessi materiali, possiamo andare oltre le spiegazioni inconsistenti che prendono per oro colato le affermazioni dei governanti e avvicinarci a un quadro più coerente di come la guerra sia radicata nel vuoto economico e politico aperto dal crollo sovietico del 1991.

Cosa c’è in un nome?

Durante l’attuale guerra, la maggior parte dei marxisti ha fatto riferimento al concetto di imperialismo per teorizzare gli interessi del Cremlino. Naturalmente, è importante affrontare qualsiasi puzzle analitico con tutti gli strumenti a disposizione. Tuttavia, è altrettanto importante utilizzarli in modo corretto.

Il problema in questo caso è che il concetto di imperialismo non ha subito praticamente alcuno sviluppo nella sua applicazione alla condizione post-sovietica. Né Vladimir Lenin né nessun altro teorico marxista classico avrebbe potuto immaginare la situazione fondamentalmente nuova che è emersa con il crollo del socialismo sovietico. La loro generazione ha analizzato l’imperialismo dell’espansione capitalista e della modernizzazione. La condizione post-sovietica, al contrario, è una crisi permanente di contrazione, demodernizzazione e periferizzazione.

Questo non significa che l’analisi dell’imperialismo russo odierno sia inutile in quanto tale, ma dobbiamo fare un bel po’ di compiti concettuali per renderla fruttuosa. Un dibattito sul fatto che la Russia contemporanea sia un paese imperialista facendo riferimento ad alcune definizioni da manuale del XX secolo ha solo un valore scolastico. Da concetto esplicativo, “imperialismo” si trasforma in un’etichetta descrittiva astorica e tautologica: “La Russia è imperialista perché ha attaccato un vicino più debole”; “La Russia ha attaccato un vicino più debole perché è imperialista” e così via.

L’espansionismo del capitale finanziario russo (considerando l’impatto delle sanzioni sull’economia russa, molto globalizzata, e sui patrimoni occidentali degli “oligarchi” russi); la conquista di nuovi mercati (in Ucraina, che non è riuscita ad attrarre praticamente nessun investimento diretto estero, o IDE, se non il denaro offshore dei suoi stessi oligarchi); il controllo di risorse strategiche (qualunque siano i giacimenti minerari presenti sul territorio ucraino, la Russia avrebbe bisogno di un’industria in espansione per assorbirli o almeno della possibilità di venderli alle economie più avanzate, possibilità che, a sorpresa, è limitata solo dalle sanzioni occidentali); o qualsiasi altra causa tipicamente imperialista alla base dell’invasione russa, alcuni analisti sostengono che la guerra potrebbe possedere la razionalità autonoma di un imperialismo “politico” o “culturale”. Si tratta in definitiva di una spiegazione eclettica. Il nostro compito è proprio quello di spiegare come le motivazioni politiche e ideologiche dell’invasione riflettano gli interessi della classe dominante. Altrimenti, finiremmo inevitabilmente per avere teorie grossolane sul potere per amore del potere o sul fanatismo ideologico. Inoltre, significherebbe che la classe dirigente russa è stata presa in ostaggio da un maniaco assetato di potere e da uno sciovinista nazionale ossessionato dalla “missione storica” di ripristinare la grandezza russa, oppure soffre di una forma estrema di falsa coscienza – condividendo le idee di Putin sulla minaccia della NATO e la sua negazione della statualità ucraina, che porta a politiche oggettivamente contrarie ai propri interessi.

Non è raro che gli interessi collettivi di una classe si sovrappongano solo parzialmente agli interessi dei singoli rappresentanti di quella classe.

Ma uesto non è il caso. Putin non è un maniaco assetato di potere, né un fanatico ideologico (questo tipo di politica è stata marginale in tutto lo spazio post-sovietico), né un pazzo. Lanciando la guerra in Ucraina, protegge gli interessi collettivi razionali della classe dirigente russa. Non è raro che gli interessi collettivi della classe si sovrappongano solo in parte agli interessi dei singoli rappresentanti di quella classe, o addirittura li contraddicano. Ma che tipo di classe governa effettivamente la Russia e quali sono i suoi interessi collettivi?

Il capitalismo politico in Russia e oltre

Alla domanda su quale sia la classe che governa la Russia, la maggior parte delle persone di sinistra risponderebbe quasi istintivamente: i capitalisti. Il cittadino medio dello spazio post-sovietico li chiamerebbe probabilmente ladri, truffatori o mafiosi. Una risposta un po’ più definita sarebbe “oligarchi”. È facile liquidare queste risposte come la falsa coscienza di chi non comprende i propri governanti in termini “propriamente” marxisti. Tuttavia, un percorso di analisi più produttivo sarebbe quello di riflettere sul motivo per cui i cittadini post-sovietici enfatizzano le ruberie e la stretta interdipendenza tra le imprese private e lo Stato che la parola “oligarca” implica.

Come nel caso della discussione sull’imperialismo moderno, dobbiamo prendere sul serio la specificità della condizione post-sovietica. Storicamente, l'”accumulazione primitiva” si è verificata nel processo di disintegrazione centrifuga dello stato e dell’economia sovietici. Lo scienziato politico Steven Solnick ha definito questo processo “furto di Stato”. I membri della nuova classe dirigente privatizzarono le proprietà statali (spesso per pochi centesimi di dollaro) o ottennero abbondanti opportunità di trasferire i profitti di enti formalmente pubblici in mani private. Hanno sfruttato le relazioni informali con i funzionari statali e le scappatoie legali, spesso intenzionalmente progettate, per una massiccia evasione fiscale e una fuga di capitali, il tutto eseguendo acquisizioni ostili di aziende per ottenere profitti rapidi con un orizzonte a breve termine.

L’economista marxista russo Ruslan Dzarasov ha catturato queste pratiche con il concetto di “rendita insider”, sottolineando la natura di rendita del reddito estratto dagli insider grazie al loro controllo sui flussi finanziari delle imprese, che dipendono dalle relazioni con i detentori del potere. Queste pratiche sono certamente riscontrabili anche in altre parti del mondo, ma il loro ruolo nella formazione e nella riproduzione della classe dirigente russa è molto più importante a causa della natura della trasformazione post-sovietica, iniziata con il crollo centrifugo del socialismo di stato e il successivo riconsolidamento politico-economico su base clientelare.

Altri importanti pensatori, come il sociologo ungherese Iván Szelényi, descrivono un fenomeno simile come “capitalismo politico”. Secondo Max Weber, il capitalismo politico è caratterizzato dallo sfruttamento delle cariche politiche per accumulare ricchezza privata. Definirei i capitalisti politici la frazione della classe capitalista il cui principale vantaggio competitivo deriva da benefici selettivi da parte dello Stato, a differenza dei capitalisti il cui vantaggio è radicato nelle innovazioni tecnologiche o in una forza lavoro particolarmente economica. I capitalisti politici non sono unici nei Paesi post-sovietici, ma sono in grado di prosperare proprio in quelle aree in cui lo Stato ha storicamente giocato il ruolo dominante nell’economia e ha accumulato un immenso capitale, ora aperto allo sfruttamento privato.

La presenza del capitalismo politico è fondamentale per capire perché, quando il Cremlino parla di “sovranità” o di “sfere di influenza”, non è affatto il prodotto di un’ossessione irrazionale per concetti ormai superati. Allo stesso tempo, questa retorica non è necessariamente un’articolazione dell’interesse nazionale russo, quanto piuttosto un riflesso diretto degli interessi di classe dei capitalisti politici russi. Se i benefici selettivi dello Stato sono fondamentali per l’accumulo della loro ricchezza, questi capitalisti non hanno altra scelta che recintare uno spazio dove esercitano il controllo monopolistico – controllo che non può essere condiviso con nessun’altra frazione della classe capitalista.

Questo interesse a “marcare il territorio” non è condiviso, o almeno non è così importante per diversi tipi di capitalisti. Una lunga controversia nella teoria marxista si è incentrata sulla questione, parafrasando Göran Therborn, di “cosa fa effettivamente la classe dominante quando governa”. L’enigma consisteva nel fatto che la borghesia negli Stati capitalisti di solito non gestisce direttamente lo Stato. La burocrazia statale di solito gode di una sostanziale autonomia dalla classe capitalista, ma la serve stabilendo e facendo rispettare le regole che favoriscono l’accumulazione capitalistica. I capitalisti politici, invece, non hanno bisogno di regole generali ma di un controllo molto più stretto sui decisori politici. In alternativa, occupano essi stessi cariche politiche e le sfruttano per l’arricchimento privato.

Molte icone del capitalismo imprenditoriale classico hanno beneficiato di sussidi statali, regimi fiscali preferenziali o varie misure protezionistiche. Tuttavia, a differenza dei capitalisti politici, la loro sopravvivenza e la loro espansione sul mercato dipendevano solo raramente da un insieme specifico di individui che ricoprivano determinate cariche, da specifici partiti al potere o da specifici regimi politici. Il capitale transnazionale poteva e voleva sopravvivere anche senza gli Stati nazionali in cui si trovavano le loro sedi: basti pensare al progetto seasteading di città imprenditoriali galleggianti indipendenti da qualsiasi Stato nazionale, promosso da magnati della Silicon Valley come Peter Thiel. I capitalisti politici non possono sopravvivere nella competizione globale senza almeno un territorio dove poter raccogliere rendite interne senza interferenze esterne.

Il Conflitto di classe nella periferia post-sovietica

Resta aperta la questione se il capitalismo politico sarà sostenibile nel lungo periodo. Dopo tutto, lo Stato deve prendere risorse da qualche parte per ridistribuirle tra i capitalisti politici. Come osserva Branko Milanovic, la corruzione è un problema endemico del capitalismo politico, anche quando a gestirlo è una burocrazia efficace, tecnocratica e autonoma. A differenza dei casi più riusciti di capitalismo politico, come la Cina, le istituzioni del Partito Comunista Sovietico si sono disintegrate e sono state sostituite da regimi basati su reti clientelari personali che piegano la facciata formale della democrazia liberale a loro favore. Questo spesso va contro gli impulsi di modernizzazione e professionalizzazione dell’economia. Per dirla in modo crudo, non si può rubare dalla stessa fonte per sempre. È necessario trasformarsi in un modello capitalistico diverso per sostenere il tasso di profitto, attraverso investimenti di capitale o l’intensificazione dello sfruttamento della manodopera, oppure espandersi per ottenere più fonti per l’estrazione di rendite interne.

I salari relativamente bassi della regione sono stati possibili solo grazie alle ampie infrastrutture materiali e alle istituzioni di welfare lasciate in eredità dall’Unione Sovietica.

Ma sia il reinvestimento che lo sfruttamento del lavoro incontrano ostacoli strutturali nel capitalismo politico post-sovietico. Da un lato, molti esitano a impegnarsi in investimenti a lungo termine quando il loro modello di business e persino la proprietà dipendono fondamentalmente da determinate persone al potere. In genere si è dimostrato più opportuno spostare i profitti in conti offshore. D’altra parte, la manodopera post-sovietica era urbanizzata, istruita e non a buon mercato. I salari relativamente bassi della regione sono stati possibili solo grazie alle vaste infrastrutture materiali e alle istituzioni di welfare che l’Unione Sovietica ha lasciato in eredità. Questa eredità rappresenta un enorme fardello per lo Stato, ma non è facile da abbandonare senza compromettere il sostegno di gruppi chiave di elettori. Cercando di porre fine alla rapace rivalità tra capitalisti politici che ha caratterizzato gli anni ’90, i leader bonapartisti come Putin e altri autocrati post-sovietici hanno mitigato la guerra di tutti contro tutti bilanciando gli interessi di alcune frazioni dell’élite e reprimendone altre, senza alterare le basi del capitalismo politico.

Quando l’espansione rapace ha iniziato a scontrarsi con i limiti interni, le élite russe hanno cercato di esternalizzarla per sostenere il tasso di rendita aumentando il bacino di estrazione. Da qui l’intensificazione dei progetti di integrazione guidati dalla Russia, come l’Unione Economica Eurasiatica. Questi hanno incontrato due ostacoli. Uno era relativamente minore: i capitalisti politici locali. In Ucraina, ad esempio, erano interessati all’energia russa a basso costo, ma anche al loro diritto sovrano di raccogliere rendite interne al loro territorio. Hanno saputo strumentalizzare il nazionalismo anti-russo per legittimare le loro rivendicazioni sulla parte ucraina dello stato sovietico in disgregazione, ma non sono riusciti a sviluppare un progetto di sviluppo nazionale distinto.

Il titolo del famoso libro del secondo presidente ucraino, Leonid Kuchma, “L’Ucraina non è la Russia”, illustra bene questo problema. Se l’Ucraina non è la Russia, allora cos’è esattamente? Il fallimento universale dei capitalisti politici post-sovietici non russi nel superare la crisi di egemonia ha reso il loro governo fragile e in ultima analisi dipendente dal sostegno russo, come abbiamo visto di recente in Bielorussia e Kazakistan.

L’alleanza tra il capitale transnazionale e le classi medie professionali dello spazio post-sovietico, rappresentate politicamente da società civili filo-occidentali e ONG, ha dato una risposta più convincente alla domanda su cosa esattamente dovrebbe crescere sulle rovine del socialismo di Stato degradato e disintegrato e ha rappresentato un ostacolo maggiore all’integrazione post-sovietica guidata dalla Russia. Questo ha costituito il principale conflitto politico nello spazio post-sovietico che è culminato nell’invasione dell’Ucraina.

La stabilizzazione bonapartista attuata da Putin e da altri leader post-sovietici ha favorito la crescita della classe media professionale. Una parte di essa ha condiviso alcuni benefici del sistema, ad esempio se impiegata nella burocrazia o in imprese statali strategiche. Tuttavia, gran parte di essa è stata esclusa dal capitalismo politico.

Le loro principali opportunità di reddito, carriera e sviluppo dell’influenza politica risiedevano nelle prospettive di intensificazione dei legami politici, economici e culturali con l’Occidente. Allo stesso tempo, erano l’avanguardia del soft power occidentale. L’integrazione nelle istituzioni guidate dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti rappresentava per loro un progetto di modernizzazione, di adesione al capitalismo “vero e proprio” e, più in generale, al “mondo civilizzato”. Ciò significava necessariamente rompere con le élite post-sovietiche, con le istituzioni e con la mentalità radicata dell’era socialista delle masse plebee “arretrate” che erano rimaste attaccate all’idea, anche se limitata di stabilità dopo il disastro degli anni Novanta.

Per la maggior parte degli ucraini, questa è una guerra di autodifesa. Riconoscendo ciò, non dobbiamo dimenticare il divario tra i loro interessi e quelli di coloro che pretendono di parlare a loro nome.

La natura profondamente elitaria di questo progetto è il motivo per cui non è mai diventato veramente egemonico in nessun paese post-sovietico, anche quando è stato alimentato da uno storico nazionalismo anti-russo, come è avvenuto in Ucraina. Allo stesso tempo, aiuta a spiegare la scettica neutralità del Sud globale quando viene chiamato a solidarizzare con un’aspirante grande potenza al pari delle altre grandi potenze occidentali (la Russia) o con un’aspirante periferia delle stesse grandi potenze che non cerca di abolire l’imperialismo, ma di unirsi a uno più importante (l’Ucraina). Per la maggior parte degli ucraini, questa è una guerra di autodifesa. Riconoscendo ciò, non dobbiamo dimenticare il divario tra i loro interessi e quelli di coloro che sostengono di parlare a loro nome e che presentano programmi politici e ideologici molto particolari come universali per l’intera nazione – dando forma a un”autodeterminazione” con un taglio molto specifico per la classe.

La discussione sul ruolo dell’Occidente nel preparare la strada all’invasione russa si concentra in genere sulla posizione minacciosa della NATO nei confronti della Russia. Ma prendendo in considerazione il fenomeno del capitalismo politico, possiamo vedere il conflitto di classe alla base dell’espansione occidentale e perché l’integrazione dell’Occidente con la Russia senza una trasformazione fondamentale di quest’ultima non avrebbe mai potuto funzionare. Non c’era modo di integrare i capitalisti politici post-sovietici in istituzioni guidate dall’Occidente che cercavano esplicitamente di farli fuori come classe privandoli del loro principale vantaggio competitivo: i benefici selettivi concessi dagli Stati post-sovietici. La cosiddetta agenda “anticorruzione” è stata una parte vitale, se non la più importante, della visione delle istituzioni occidentali per lo spazio post-sovietico, ampiamente condivisa dalla classe media filo-occidentale della regione. Per i capitalisti politici, il successo di questa agenda significherebbe la loro fine politica ed economica.

Pubblicamente, il Cremlino cerca di presentare la guerra come una battaglia per la sopravvivenza della Russia come nazione sovrana. La posta in gioco più importante, tuttavia, è la sopravvivenza della classe dirigente russa e del suo modello di capitalismo politico. La ristrutturazione “multipolare” dell’ordine mondiale risolverebbe il problema per qualche tempo. Ecco perché il Cremlino sta cercando di vendere il suo specifico progetto di classe alle élite del Sud globale che otterrebbero una propria “sfera di influenza” sovrana basata sulla pretesa di rappresentare una “civiltà”.

La crisi del bonapartismo post-sovietico

Gli interessi contraddittori dei capitalisti politici post-sovietici, delle classi medie professionali e del capitale transnazionale hanno strutturato il conflitto politico che alla fine ha dato vita all’attuale guerra. Tuttavia, la crisi dell’organizzazione politica dei capitalisti politici ha esacerbato la minaccia nei loro confronti.

I regimi bonapartisti come quello di Putin o di Alexander Lukashenko in Bielorussia si basano su un sostegno passivo e depoliticizzato e traggono la loro legittimità dal superamento del disastro del crollo post-sovietico, non dal tipo di consenso attivo che assicura l’egemonia politica della classe dirigente. Un governo autoritario così personalistico è fondamentalmente fragile a causa del problema della successione. Non ci sono regole o tradizioni chiare per trasferire il potere, non c’è un’ideologia articolata a cui un nuovo leader debba aderire, non c’è un partito o un movimento in cui un nuovo leader possa essere socializzato. La successione rappresenta il punto di vulnerabilità in cui i conflitti interni all’élite possono degenerare in modo pericoloso e in cui le rivolte dal basso hanno maggiori possibilità di successo.

Negli ultimi anni, tali rivolte si sono intensificate nella periferia della Russia, tra cui non solo la rivoluzione di Euromaidan in Ucraina nel 2014, ma anche le rivoluzioni in Armenia, la terza rivoluzione in Kirghizistan, la fallita rivolta del 2020 in Bielorussia e, più recentemente, la rivolta in Kazakistan. Negli ultimi due casi, il sostegno russo si è rivelato fondamentale per garantire la sopravvivenza del regime locale. All’interno della stessa Russia, le manifestazioni “Per elezioni giuste” tenutesi nel 2011 e nel 2012, così come le successive mobilitazioni ispirate da Alexey Navalny, non sono state insignificanti. Alla vigilia dell’invasione, le agitazioni sindacali erano in aumento, mentre i sondaggi mostravano un calo della fiducia in Putin e un numero crescente di persone che ne auspicavano il ritiro. Pericolosamente, l’opposizione a Putin era tanto più alta quanto più giovani erano gli intervistati.

Nessuna delle cosiddette “rivoluzioni alla Maidan post-sovietiche” ha rappresentato una minaccia esistenziale per i capitalisti politici post-sovietici come classe a sé stante. Si sono limitate a scambiare frazioni della stessa classe al potere, intensificando così la crisi della rappresentanza politica a cui erano una reazione. Ecco perché queste proteste si sono ripetute così frequentemente.

Le “rivoluzioni alla Maidan sono tipiche rivoluzioni civiche urbane contemporanee, come le ha definite il politologo Mark Beissinger. Sulla base un enorme materiale statistico, egli dimostra che, a differenza delle rivoluzioni sociali del passato, le rivoluzioni civiche urbane indeboliscono solo temporaneamente il dominio autoritario e danno potere alle società civili della classe media. Non portano a un ordine politico più forte o più egualitario, né a cambiamenti democratici duraturi. In genere, nei paesi post-sovietici, le rivoluzioni maidan hanno solo indebolito lo Stato e reso i capitalisti politici locali più vulnerabili alle pressioni del capitale transnazionale, sia direttamente che indirettamente attraverso le ONG filo-occidentali. Ad esempio, in Ucraina, dopo la rivoluzione di Euromaidan, una serie di istituzioni “anticorruzione” è stata ostinatamente portata avanti dal FMI, dal G7 e dalla società civile. Negli ultimi otto anni non hanno presentato alcun caso di corruzione di rilievo. Tuttavia, hanno istituzionalizzato la supervisione delle principali imprese statali e del sistema giudiziario da parte di cittadini stranieri e attivisti anti-corruzione, riducendo così le opportunità dei capitalisti politici nazionali di raccogliere rendite interne. I capitalisti politici russi avrebbero una buona ragione per essere nervosi a causa dei problemi degli oligarchi ucraini un tempo potenti.

Le conseguenze indesiderate del consolidamento della classe dirigente

Diversi fattori contribuiscono a spiegare la tempistica dell’invasione e l’errore di calcolo di Putin a proposito una vittoria facile e veloce, come il vantaggio temporaneo della Russia nelle armi ipersoniche, la dipendenza dell’Europa dall’energia russa, la repressione della cosiddetta opposizione filorussa in Ucraina, la stagnazione degli accordi di Minsk del 2015 in seguito alla guerra nel Donbas o il fallimento dell’intelligence russa in Ucraina. In questa sede, ho cercato di delineare a grandi linee il conflitto di classe alla base dell’invasione, ovvero tra capitalisti politici interessati all’espansione territoriale per sostenere il tasso di rendita, da un lato, e il capitale transnazionale alleato con le classi medie professionali – che sono state escluse dal capitalismo politico – dall’altro.

Il concetto marxista di imperialismo può essere applicato utilmente all’attuale guerra solo se riusciamo a identificare gli interessi materiali che vi stanno dietro. Allo stesso tempo, il conflitto non riguarda solo l’imperialismo russo. Il conflitto che si sta risolvendo in Ucraina a colpi di carri armati, artiglieria e missili è lo stesso conflitto che i manganelli della polizia hanno represso in Bielorussia e nella stessa Russia. L’intensificarsi della crisi di egemonia post-sovietica, l’incapacità della classe dirigente di sviluppare una leadership politica, morale e intellettuale duratura – è la causa principale dell’escalation di violenza.

La classe dirigente russa è eterogenea. Alcune parti di essa stanno subendo pesanti perdite a causa delle sanzioni occidentali. Tuttavia, la parziale autonomia del regime russo dalla classe dirigente gli permette di perseguire interessi collettivi a lungo termine indipendentemente dalle perdite dei singoli rappresentanti o gruppi. Allo stesso tempo, la crisi di regimi simili nella periferia russa sta aggravando la minaccia esistenziale per la classe dirigente russa nel suo complesso. Le frazioni più sovraniste dei capitalisti politici russi stanno avendo la meglio su quelle più compradore, ma anche queste ultime probabilmente si rendono conto che, con la caduta del regime, perderebbero tutti.

Con la guerra, il Cremlino ha cercato di mitigare questa minaccia per il prossimo futuro, con l’obiettivo finale della ristrutturazione “multipolare” dell’ordine mondiale. Come suggerisce Branko Milanovic, la guerra legittima il distacco della Russia dall’Occidente, nonostante i costi elevati, allo stesso tempo rende estremamente difficile un’inversione di rotta dopo l’annessione di un numero ancora maggiore di territori ucraini. Allo stesso tempo, la cricca al potere in Russia eleva l’organizzazione politica e la legittimazione ideologica della classe dirigente a un livello superiore. Ci sono già segnali di una trasformazione verso un regime politico autoritario più consolidato, ideologico e mobilitante in Russia, con accenni espliciti a un capitalismo politico più efficace della Cina come modello. Per Putin, si tratta essenzialmente di un’altra tappa del processo di consolidamento post-sovietico che ha iniziato nei primi anni 2000 domando gli oligarchi russi. Alla narrazione di voler di prevenire il disastro e ripristinare la “stabilità” nella prima fase, segue ora un nazionalismo conservatore più articolato nella seconda fase (diretto all’estero contro gli ucraini e l’Occidente, ma anche all’interno della Russia contro i “traditori” cosmopoliti) come unico linguaggio ideologico ampiamente disponibile nel contesto della crisi dell’ideologia post-sovietica.

Alcuni autori, come il sociologo Dylan John Riley, sostengono che una politica egemonica più forte dall’alto possa favorire la crescita di una politica controegemonica più forte dal basso. Se questo è vero, lo spostamento del Cremlino verso una politica più ideologica e mobilitante potrebbe creare le condizioni per un’opposizione politica di massa più organizzata, consapevole e radicata nelle classi popolari di quanto non abbia mai visto nessun paese post-sovietico e, in ultima analisi, per una nuova ondata socio-rivoluzionaria. Questo sviluppo potrebbe a sua volta spostare radicalmente l’equilibrio delle forze sociali e politiche in questa parte del mondo, ponendo potenzialmente fine al circolo vizioso che l’ha afflitta dal crollo dell’Unione Sovietica circa tre decenni fa.

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